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Un viaggio in bici per “i fantasmi di Portopalo”

di Norma Ferrara il . Sicilia

1200 Km  tutti nelle gambe, un sorriso stampato sul volto  e gli occhi che brillano al suo arrivo a Portopalo (Sr). E’ il 23 agosto scorso e lì, davanti a lei, c’è il mare in cui nel dicembre del ’96 trovarono la morte oltre 200 migranti, affondati con una nave  al largo delle coste siciliane. Lei è Gaia Ferrara, ciclista romana che quest’anno, insieme all’associazione “Viandando” e “Libera” ha voluto portare memoria, fatica e impegno dalla Puglia, terra di arrivi dall’est Europa, alla Sicilia.  Un viaggio  in bici che ha avuto molteplici obiettivi e un scopo preciso: portare all’attenzione dei mass media  la vicenda dimenticata dei “fantasmi di Portopalo”,  venuta alla luce  grazie al coraggio di Salvatore Lupo,  il pescatore che scoprì il relitto costringendo le istituzioni ad ammettere la tragedia, avvenuta in fondo al mare, nel silenzio generale (e raccontata nell’inchiesta del giornalista Giovanni Maria Bellu). Abbiamo sentito Gaia Ferrara, ancora nell’Isola in queste ore, per  conoscere  le prime impressioni e emozioni, alla fine di  questo viaggio durato tre settimane.

 Dal 2 al 23 agosto in bicicletta fra la Puglia e la Sicilia per i “Fantasmi di Portopalo” : quali storie hai incontrato durante il viaggio?

Faccio subito una premessa: sto cercando di mettere in ordine le idee, le sensazioni e i pensieri dopo queste settimane di viaggio  e spero al più presto di raccontare tutto, tappa per tappa, in un diario per poter spiegare meglio e in maniera approfondita tutte le storie che in questa esperienza ho incontrato.  Durante il percorso ho incontrato storie di migrazioni, di sfruttamento, di tratta degli esseri umani ma anche storie di rinascita, di riscatto, di persone che “ce l’hanno fatta” e oggi, insieme ad associazioni locali, sono impegnate su tanti territori. Il viaggio è stato, inoltre, l’occasione per conoscere ancora meglio le realtà positive che nel sud del Paese, operano in condizioni difficili, in cui il disagio sociale, la “deviazione” nel tessuto democratico, ovvero le mafie, è forte. Sono state tante, infatti, le  tappe che mi hanno permesso di scoprire le realtà che operano sui beni confiscati ai boss. Al termine di questo viaggio, infine, è ancora più chiaro per me quanto complesso e ampio sia il fenomeno delle migrazioni che attraversa il nostro Paese.

Quali riflessioni ha stimolato in te questo viaggio?

Tante ma una in particolare: una parte del  Paese riconduce solo alle immagini di tg e giornali il dramma dei migranti. Il viaggio mi ha permesso di comprendere meglio che  quelle foto, quei video, sono solo una istantanea di un percorso più ampio di migrazione, che inizia molto prima e termina di gran lunga oltre il nostro Paese. E che – in Italia – ci interroghiamo poco o nulla sulla povertà, le guerre, le motivazioni del loro viaggio. Sulle “vie della morte”, il lungo attraversamento del deserto che può durare mesi e spegnersi con la violenza. Le mafie che gestiscono queste partenze: commerciano vite umane,  torturano e uccidono. Ed è solo, quando e  se sopravvivono a tutto questo che donne, uomini e bambini arrivano sulle nostre coste.

 E qui, troppo spesso, ha inizio l’inferno…

Si. Durante il percorso ho avuto modo di conoscere storie positive di accoglienza in alcuni territori ma al tempo stesso, l’inferno e il dramma di alcuni centri di permanenza. Perché – come per tutte le cose – c’è chi vuole davvero aiutare le persone che arrivano e chi invece abusa delle condizioni di difficoltà in cui si trovano. Inoltre, si tratta di una fase delicata in cui le mafie tendono a “rubare” le loro vite. Bisogna arrivare, dunque, prima di loro e  fare bene, seguendo le regole e mettendo al centro la dignità umana, i diritti delle persone.

Come sei stata accolta nelle diverse realtà che hai incontrato?

Con entusiasmo, curiosità e con domande interessanti che mi hanno fatto riflettere. Una su tutte l’ha fatta un ragazzo a Polistena, in Calabria, quando mi ha chiesto: “Ma non ti sembra facile parlare a persone già sensibilizzate su questo argomento? come facciamo  a parlare con tutti gli altri, quelli che non sanno o non vogliono sapere?”. E’ un interrogativo che mi sono portata dentro per tutto il viaggio, una riflessione che penso riguardi tutti. L’incontro con i tanti volontari che operano sui beni confiscati alle mafie, così come quello con le tante associazioni locali e con alcuni migranti, inoltre, è stata anche l’occasione per conoscere tante istanze territoriali, causate da disagi sociali, dalla pervasività delle mafie, che riguardano certamente i migranti ma, al tempo stesso,  tanti italiani che lì vivono.

Il giornalista Giovanni Maria Bellu, autore dell’inchiesta che fece conoscere la storia del naufragio cui hai dedicato il viaggio, ti ha inviato una lettera. Nel testo sottolinea  quanto ci sia bisogno di iniziative come la tua, spesso tacciate di “buonismo” e quanto sterili siano le critiche rivolte a chi si spende per cause sociali.  Qual è la tua opinione?

Bellu è stato un sostegno importante durante il viaggio: ci siamo scritti e sentiti spesso. Poi, mi ha inviato una bella  lettera e solo per un disguido non ci ha raggiunto a Portopalo, nella tappa finale. Condivido quello che ha scritto: non ho fatto questo viaggio mossa da sentimenti di finta solidarietà, di “buonismo” appunto, non ho visto questi sentimenti neppure nelle associazioni che ho incontrato nel percorso. Ho conosciuto persone che credono nella dignità umana e nei diritti delle persone e fanno qualcosa, ciascuno come può, perché chi arriva da noi venga accolto come persona, portatore di diritti che devono essere rispettati. “Il buonismo”, la finta solidarietà, la pietà che spesso ci spingono a dire “aiutiamoli …poveretti” è  dannosa tanto quanto lo è il contrasto, l’allontanamento, il razzismo.

Insieme al viaggio hai lanciato una petizione on line per recuperare il relitto della nave che quella notte affondò in mare: come procederete adesso? 

Si stanno ancora raccogliendo le firme per la petizione e adesso, anche alla luce delle idee emerse durante il percorso, delle proposte arrivate nell’ultima tappa a Portopalo, ragioneremo sul da farsi. L’importante per me – ed è quello su cui vorrei ragionare insieme ai tanti firmatari della petizione – è che  il sostegno ricevuto durante questo viaggio in bici non si fermi qui. Che si trovi il modo per fare azioni concrete per ricordare i morti di quella strage, certo, ma anche aiutare i vivi, i migranti di oggi. Che si trovi dopo tanti anni modo di dare un nome alle vittime di quel naufragio del’96, perché la memoria sia restituita a tutti loro. Perchè – come ha detto durante l’incontro a Portopalo, il coordinatore di Libera in Sicilia, Umberto Di Maggio, “non siano più fantasmi”. A piccoli passi, già in queste prime ore, stiamo raccogliendo suggerimenti, proposte e idee.

L’idea di questo viaggio è nato mentre eri in Medio Oriente, impegnata in un’altra “pedalata” a fini sociali. Anche questo percorso è stato fonte di ispirazione per il successivo? 

Si, devo ammettere che anche questa volta è andata così.Però non dico ancora nulla, per il momento…

 

 

Leggi anche “1200 Km per i fantasmi di Portopalo”

 

 [Per le foto si ringrazia il gruppo “1200 Km per i fantasmi di Portopalo” e i tanti volontari che hanno animato la pagina Facebook]

 

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