Beni confiscati: il “modello Roma” per i tribunali d’ltalia
Lo Bello, Confindustria: “Adotteremo le aziende confiscate, insieme più forti contro mafie”/// Un “pool” di magistrati che a Roma, al tribunale per le Misure di prevenzione, da alcuni mesi segue tutti i procedimenti relativi ai sequestri e alle confische di beni ai boss. Questa la “rivoluzione semplice” nata nella Capitale, terza città per beni sottratti alle mafie, e raccontata oggi dal presidente Guglielmo Muntoni durante l’appuntamento “Usiamo bene i beni confiscati” promosso dalla Commissione parlamentare antimafia, all’interno del ciclo di incontri “Il mese dell’Antimafia”. «Abbiamo provato – spiega Muntoni – ad organizzare un collegio di magistrati che si occupa solo delle misure di prevenzione, cercando così di avere un quadro più chiaro della situazione e di poter intervenire in maniera più rapida e mirata. E’ chiaro che le criticità – continua – siano ancora tante, dai costi alla questione relativa ai tempi di assegnazione e gestione delle aziende confiscate ai boss». All’aggressione criminale dei clan al tessuto economico della regione, il tribunale di Roma prova a rispondere, dunque, con una azione coordinata e più efficace, perché «E’ fondamentale – commenta il magistrato – che i ristoranti, bar, le pizzerie, sotto provvedimento giudiziario non chiudano neppure un giorno e che i lavoratori siano garantiti. Che lo Stato dimostri di saper far fronte ai “costi di legalità” e dare nuova vita a quelle aziende».
Il nodo delle ipoteche bancarie per le aziende, la filiera dei fornitori e dei clienti che si indebolisce o peggio scompare dopo il sequestro o la confisca, il lavoro legale al posto del lavoro nero per i dipendenti sono alcune delle criticità legate alla rinascita di queste imprese. Cosi il magistrato Muntoni punta il dito su alcune possibili risposte per farle ripartire, fra gli altri gli sgravi fiscali, la destinazione effettiva del bene anche in fase di sequestro, una nuova disponibilità dell’Abi, il circuito bancario nazionale, a trovare soluzioni per aiutare queste imprese a rientrare, sane, nel mercato legale. Sull’impegno del settore finanziario e imprenditoriale interviene anche il vicepresidente di Confindustria, Ivanhoe Lo Bello, che spiega «le vicende delle aziende confiscate hanno un effetto dirompente culturale e simbolico su tutto il territorio in cui operano e dunque lo Stato non può permettersi di fallire, perché non si tratta solo di una questione economica». Lo Bello fa una panoramica delle diverse situazioni affrontate in questi anni. «Davanti alle aziende “destinate alla chiusura” la priorità è utilizzare i fondi per garantire i lavoratori, nel caso in cui invece l’impresa può essere ricondotta sul mercato legale bisogna mettere in campo tutte le migliori energie, fra gli altri i manager provenienti da “white list” capaci di gestire il percorso di rilancio e una rinnovata disponibilità del sistema bancario». «Serve un approccio di valore e una concretezza degli strumenti» – conclude Lo Bello annunciando che «Confindustria adotterà le aziende confiscate perché – come spiega a Libera Informazione – la partecipazione di queste imprese all’associazione consentirà loro di ricevere una solidarietà complessiva concreta, di usufruire di servizi, di discutere con più forza con il sistema bancario, di avere una consulenza nella fase di ridefinizione del modello di business da attuare dopo il sequestro e/o la confisca». Fare rete, mettere in comune, non lasciare sole le aziende e soprattutto assumerci, ciascuno, le proprie responsabilità, è l’appello di Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, al dibattito. Ciotti ricorda la nascita della legge sulla confisca dei beni, il sacrificio di Pio La Torre, ideatore della Legge poi ucciso da Cosa nostra nel 1982 e la mobilitazione della società civile nel 1996, con un milione di firme per chiedere il riutilizzo sociale di quei beni. «Da oltre un anno – denuncia Ciotti – non sono disponibili i dati relativi al numero di beni confiscati in Italia. Questo non è accettabile». Anche sul Fondo Unico della Giustizia Ciotti chiede chiarezza «è importante sapere come vengono utilizzati, sono soldi che devono andare ai familiari delle vittime delle mafie, ai testimoni di giustizia, alla rinascita delle aziende confiscate». Poi sull’antimafia in Europa aggiunge: «La direttiva europea da poco approvata – sebbene lasci ai singoli paesi la facoltà di decidere sul riutilizzo a fini sociali – è una conquista importante che appartiene ai cittadini, alle associazioni che per cinque anni sono stati in Europa a chiedere conto e aiutare le istituzioni in questa direzione». La rete di associazioni di Libera ha lanciato due campagne per poter accompagnare queste aziende e fare in modo che ciascuno faccia la propria parte: Libera il Welfare e “Impresa bene comune” – Ciotti le ricorda spiegando come dai beni confiscati e dalla legalità possano essere liberate risorse per ripartire dagli ultimi, dalla lotta alla povertà, dalle tante persone che sono in difficoltà in questo periodo.
La presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, in conclusione tira le fila del dibattito e rilancia alcuni punti chiave, che in parte saranno oggetto della prossima relazione della Commissione: un impegno più chiaro delle banche che hanno concesso prestiti a imprese mafiose e hanno il dovere di “restituire” alla collettività, aprire al “modello Roma” nei tribunali in altre città, una revisione del diritto fallimentare per le aziende confiscate (“liberarci dal diritto fallimentare e far prevalere i percorsi di rilancio delle aziende”- commenta). E infine, con un occhio al Parlamento, accoglie il monito di Ciotti sulla legge anticorruzione, oggetto di un dura battaglia alla Camera in queste ore. Il presidente di Libera nel suo intervento aveva chiesto ai parlamentari “fate presto” e la presidente ha aggiunto: «non siamo sordi alle osservazioni di chi non è d’accordo con il testo in esame ma al momento credo si possa dire meglio una legge imperfetta che nessuna legge». Un testo di legge, quello sulla corruzione, fondamentale per la lotta antimafia perché, come evidenziato nelle tante operazioni portate avanti dai magistrati contro i clan, attraverso questo reato i boss si infiltrano nell’economia legale, la condizionano, comprano aziende e mettono le mani sul tessuto socio-economico di intere città.
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