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Via D’Amelio, Riina “Telecomando nel citofono”

di redazione il . Lazio, Senza categoria

Nelle intercettazioni delle conversazioni in carcere con un detenuto, il boss Totò Riina parla ancora  della strage di via D’Amelio del 19 luglio del 1992. L’anziano capo di Cosa nostra spiega che il telecomando della carica che uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, era stato sistemato nel citofono del palazzo dove abitava la madre del procuratore.  A rivelare queste trascrizioni delle intercettazioni il quotidiano La Repubblica spiegando che “Borsellino, citofonando alla madre, avrebbe azionato la bomba piazzata dentro la Fiat 126, la bomba che non lasciò scampo al magistrato e ai cinque poliziotti della scorta”. Nelle stesse ore a Roma, alle udienze in trasferta del processo per la trattativa Stato – mafia, depone proprio Fabio Tranchina, fiancheggiatore e ‘autista dei boss di Brancaccio che “curarono” la messa in atto di quella strage. “Due settimane prima – ricorda Fabio Tranchina – Giuseppe Graviano mi fece passare con la macchina da via d’Amelio. Il sabato che precede la strage, inoltre, Graviano dormì a casa mia. Poi mi chiese dove fossi il giorno dopo. Io risposi che sarei andato a Casteldaccia con la famiglia e la fidanzata. Si accertò che io non fossi a Palermo, poi capiì cosa era successo”. Sempre Tranchina ha spiegato che a metà luglio, sempre Graviano, cercava un appartamento in via d’Amelio: “Poi, dopo alcuni sopralluoghi, mi disse che si sarebbe accomodato nel giardino. Dopo la strage, si limitò a commentare: “Na spurugghiammu“. Ci siamo riusciti.

In aula, interrogato dal pm Vittorio Teresi Tranchina ricorda anche il periodo che precedette la strage di Capaci. Anche lì le raccomandazioni del capomafia (“non prendere l’autostrada per ora”) alcune settimane prima della strage in cui morirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Prima, il tentativo di uccidere Giovanni Falcone fuori dalla Sicilia, la “missione a Roma”, il ritorno con un nulla di fatto. Tranchina, come già fatto in precendenza in altri processi, racconta il suo ruolo di autista del boss di Brancaccio, il loro legame di fiducia (non ero stato affiliato, non so perchè e non lo chiesi mai) la gestione della logistica della sua latitanza ma anche quella di altri boss di calibro. Gli incontri “misteriosi” in una casa che solo dopo Tranchina intuì potesse essere il covo di Totò Riina. “Quando andava li – dice in Aula – Graviano chiedeva di prendere soldi perchè doveva portarli là e quella cosa mi incuriosì perchè solitamente lui i soldi li riscuoteva e non viceversa”.

Presenti in aula, ieri durante la deposizione del teste Paolo Bellini e oggi per l’interrogatorio di Fabio Tranchina, alcuni cittadini, rappresentati della “scorta civica” in sostegno ai magistrati di Palermo e molti giovani della parte civile “Libera”. Ed è a Fabio Tranchina che l’avvocato di parte civile, Enza Rando, che nel processo rappresenta l’associazione presieduta da Don Luigi Ciotti, tornando agli anni bui delle stragi chiede  “Come reagirono i boss alle manifestazioni in piazza, alla reazione della società civile dopo le stragi?” E Tranchina risponde: “Ricordo che non se ne parlò direttamente con i Graviano ma la reazione  era la stessa per tutti dentro Cosa nostra, pensavano “che confusione che fanno questi, guarta a tutti questi”. “Non potevano essere viste bene quelle reazioni, quelle manifestazioni dei cittadini”.

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