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Stato-mafia,depone Bellini: “Trattativa con piani alti Governo”

di Norma Ferrara il . Lazio, Sicilia

I contatti con la mafia raccontati dall’infiltrato per conto dei Ros in Cosa nostra; Poi lo stop al dialogo perchè “C’era un’altra operazione in corso in Sicilia”/// – Roma – . «Per attaccare una fortezza ci sono tre modi: puoi farti strada lentamente, puoi aspettare che facciano cadere il muro, puoi usare un cavallo di Troia». Per farsi strada dentro Cosa nostra deve aver scelto una di queste tre strategie elencate ieri nell’aula bunker di Rebibbia, Paolo Bellini, “l’infiltrato” nella mafia per conto dello Stato. Dopo numerose testimonianze  rese in altri processi Bellini, coperto da un paravento sanitario è stato interrogato dai pm e dalle parti civili e della difesa  nelle udienze  che si stanno svolgendo “in trasferta”  a Roma per il processo sulla trattativa Stato – mafia. E come già accaduto nell’udienza preliminare, a distanza di vent’anni, ha aggiunto un nuovo tassello al puzzle della cosiddetta “prima trattativa” in corso a cavallo degli anni ’90, fra pezzi di Stato e il gotha di Cosa nostra. Dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, secondo Bellini fra l’agosto del ’92 e il dicembre dello stesso anno sarebbe stato avviato un canale di comunicazione fra i boss da un lato e i Ros dall’altro.  In mezzo, lui: pluripregiudicato, implicato nella strage di Bologna, un passato in Avanguardia Nazionale,  in  contatto con la ‘ndrangheta, accusato di diversi reati, omicidi compresi. Si sarebbe proposto come “infiltrato” per fermare le stragi di mafia. Uno e trino verrebbe da osservare, Bellini, dichiara contemporaneamente di “aver servito lo Stato”, di essere stato un “killer” per la ‘ndrangheta a Reggio – Emilia negli anni ’80 e di aver “trattato” con i boss, grazie all’amico mafioso, Nino Gioè. Tre identità  tenute riservate allo Stato, alla mafia e alla ‘ndrangheta.

Gioè e Bellini: un rapporto “confidenziale” In aula davanti ai pm Bellini  ha raccontato, soprattutto, la storia di una amicizia anomala (per un non-siciliano e non-affiliato) con il  boss di Altofonte (Enna), Antonino Gioè, morto suicida nell’estate del 1993. I due si erano conosciuti nel carcere di Sciacca (Agrigento) intorno al 1981 dove Bellini si trovava per una serie di furti commessi in Toscana legati a ricettazione di mobili e oggetti d’antiquariato. All’epoca Bellini usava una seconda identità ottenuta durante un soggiorno in Brasile. Durante il periodo di detenzione “Roberto Da  Silva” conosce il boss di Altofonte verso cui tutti “avevano il massimo rispetto”. Diversi trasferimenti da un carcere all’altro, nuovi incontri fra i due, poi la scarcerazione e il ritorno alla vecchia idenità italiana, quella di  Paolo Bellini. Siamo già a cavallo degli anni ’90 e Bellini in quegli anni aveva messo in piedi una “attività di recupero crediti” per conto di imprese del centro-Italia nei confronti di altre aziende siciliane. Un affare in cui Bellini chiede aiuto al suo vecchio amico Antonino Gioè. Nel dicembre del ’91  si mette in macchina – secondo quanto confermato ieri in aula – e raggiunge la Sicilia, alloggia in un albergo a Enna e il giorno dopo cerca l’amico e boss siciliano. Un periodo, quello, come emerge dalle carte delle inchieste sulle stragi in cui i boss avrebbero tenuto proprio nella stessa provincia importanti summit e deliberato la strategia stragista di Cosa nostra. Che ci faceva, dunque, Bellini  in quei giorni in Sicilia? Glielo chiedono i magistrati. “Si trattò di  un viaggio d’affari un po’ improvvisato”  – risponde –  solo di quello”. Durante l’interrogatorio Bellini ha spiegato in diversi passaggi il suo particolare rapporto con il boss di Altofonte: “Si confidava con me, anche di cose che un uomo di mafia non avrebbe dovuto dire ad uno esterno, anche di cose familiari, personali. E’ stato un chiacchierone, possiamo dirlo”.

Dalle opere d’arte alla “trattativa”. Ma è nell’estate del 1992 che Paolo Bellini  viene contattato dall’ispettore Procaccia della questura di Reggio- Emilia per una attività di recupero di opere d’arte rubate dalla Pinacoteca di Modena che lo metterà in contatto con il maresciallo Roberto Tempesta, del nucleo Tutela Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri. Ed è  qui che ha inizio un’altra storia.  Bellini riattiva il suo dialogo con il boss Gioè e al sottoufficiale dei carabinieri fa capire che lui ha “conocenze importanti” in Sicilia.“Mi propongo come infiltrato – spiega in aula – perchè schifato dalle stragi, pensavo bisognasse fare qualcosa  per fermarli e io avevo i contatti con Gioè”. Bellini chiede, dunque, una copertura a Tempesta per “infiltrarsi” dentro il cuore della mafia e cercare attraverso il recupero di opere d’arte un do ut des, che portasse i boss a “trattare” la fine delle stragi. L’ok per l’operazione  – racconta Bellini – sarebbe arrivato attraverso Tempesta dall’allora colonnello Mario Mori (che ha sempre negato questa circostanza, ndr) . Il nome in codice da quel momento per Bellini sarà “Aquila Selvaggia”. Una serie di incontri fra il boss e l’infiltrato danno il via a queste prove di dialogo. Davanti alle foto delle opere d’arte rubate a Modena arriva la controproposta del mafioso di Altofonte:  rintracciare  altre opere rubate in Sicilia e in cambio ottenere gli arresti domiciliari o ospedalieri per cinque boss di Cosa nostra (secondo quanto ricostruito si tratterebbe di: Pullarà, Brusca, Calò, Liggio, Gambino). I Ros però, secondo Bellini,  tramite Tempesta chiedono di temporeggiare, lo  mettono in attesa. Bellini si trova in un limbo, “tornai in Sicilia – spiega – e vidi Gioè presso una cava, fu in quell’occasione che lui rivolgendosi a me esclamò Che ne direste se una mattina vi svegliste e non trovereste più la Torre di Pisa? . “Impaurito” dalle circostanze l’infiltrato emiliano sostiene di aver risposto al boss “Sarebbe la morte di quella città”. Il primo esplicito riferimento ad una strategia terroristico-mafiosa che verrà messa in atto con gli attentati a Firenze, Roma e Milano nel 1993. E poi quel  “che ne direste” che fa capire a Bellini che il boss  Gioè, forse, ha capito tutto,  anche chi dava le carte” (non ero certo io il mazziere, ha precisato in aula il teste).   “Io ero sicuro che dietro di me ci fosse Mori – ha ribadito in aula Bellini” – ma lo Stato dopo i primi contatti mi abbandonò. “Fui messo in stand-by” – accusa l’infiltrato – mentre io avevo fatto tutto per senso dello Stato”.  Ad un tratto, dunque, la trattativa appena iniziata con i boss pare arenarsi, Bellini teme per la sua vita, scappa, poi ritorna, infine rallenta i rapporti con Gioè, perde i riferimenti istituzionali che ha avuto sino a quel momento, come i contatti con il maresciallo Tempesta e fa ingresso nell’operazione un misterioso carabiniere dei Ros.

Un carabiniere confermò “una operazione in corso in Sicilia”. Ancora una volta Bellini dice e non dice (“se permette qualcosa me la tengo”…  chiosa in un passaggio della deposizione). “Un giorno, nell’autunno del ’92,  venne da me un carabiniere dei Ros, suonò alla porta e mi chiamò con il nome in codice “Aquila Selvaggia” che conoscevamo solo io e Tempesta – dichiara. Non so come si chiamasse, non gliel’ho chiesto. Se vedessi oggi delle foto potrei provare a riconoscerlo ma non l’ho più visto da allora”. “Il carabiniere  – aggiunge Bellini – mi disse di fermarmi, di non recarmi più sino a nuove indicazioni in Sicilia perché in quel momento era in corso una operazione molto importante”. Bellini intuisce che la trattativa  si starebbe arenando sulla soglia di una seconda trattativa “più importante” in corso fra i mafiosi e pezzi dello Stato.  Il misterioso carabieniere dei Ros, nel racconto di Bellini, ricomparirà nel dicembre del ’92,  in Sicilia nei pressi del Motel Agip facendo saltare, con la sua presenza, l’ultimo appuntamento fra Bellini e  Gioè. Solo pochi giorni dopo nella stessa zona di Palermo verrà arrestato il boss Totò Riina. “Io sono un morto che cammina – ha ribadito ieri in aula Bellini. Ma voglio dire la verità sino in fondo”. La verità di Bellini si arresta davanti all’identificazione di questo carabiniere dei Ros che nel suo dialogo con l’infiltrato per conto dello Stato avrebbe, dunque, annunciato una trattativa, la stessa forse  “accennata” nella lettera che il boss Antonino Gioè scrisse in carcere prima di suicidarsi. In un passaggio di quella missiva -testamento, ricordata anche oggi in aula, Gioè scrive in un passaggio […] “Supponendo che il Sig. Bellini fosse un infiltrato sarà lui stesso a darvi conferma di quanto sto scivendo[…]. Una conferma ribadita oggi ma che potrebbe non essere l’ultima da parte “infiltrato” dello Stato, della mafia e della ‘ndrangheta.  Per conto, non si sa di chi.

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