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Il riutilizzo sociale del “tesoro dei boss” è possibile

di redazione il . Lazio

Ogni giorno hanno trasformato quella che sembrava una utopia in realtà. Sono i 395 gestori di beni confiscati alle mafie nel nostro Paese. Ieri per la prima volta si sono incontrati a Roma e hanno potuto conoscersi, scambiarsi le diverse esperienze di riutilizzo sociale del “tesoro dei boss”. Insieme hanno fatto il punto su criticità e positività di un percorso innovativo, cresciuto talvolta in solitudine, altre in piena sinergia con istituzioni locali e cittadini. Prima di incontrarsi nella Capitale hanno messo a punto proposte e analisi nei diversi territori con il percorso “Le mafie restituiscono il maltolto”. Libera ha presentato il primo censimento di queste realtà. E sono i numeri a raccontare un’altra Italia: sono 395 le realtà sociali censite e che sono assegnatari di beni confiscati nel nostro Paese. Il 65,8% delle 395 realtà’ censite da Libera si trova nel Sud Italia, il 25% nel Nord e il 9% nel centro Italia. La regione con il maggior numero di esperienze positive e’ la Sicilia, con 99 buone prassi, seguita dalla Lombardia, con 75 realtà’ sociali, mentre terza e’ la Campania, con 64. Nel dettaglio, il 58,5% del totale sono rappresentate dalle associazioni. Il 23,4% sono cooperative, mentre il 2,3% riguardano Fondazioni e Comunità’. Per quanto riguarda gli ambiti di settore, nel 22% dei casi le realtà’ sociali operano in attività’ per minori, il 13,4% operano con diversamente abili, il 13% nel reinserimento lavorativo, il 5,8% con soggetti farmacodipendenti, il 4% con anziani e migranti e il 2,7% con donne soggette a violenza; il restante 29,6% operano in altri settori.

Al Forum nazionale, portano il frutto di questo lavoro, chiedono poche norme ma efficaci alla politica e cercano di capire come migliorare l’applicazione della legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, approvata 18 anni fa. Parlano di imprenditoria sana, di start -up, di sviluppo sociale, di integrazione e inclusione sociale, di welfare e di made in Italy. Non arrivano solo dal Sud, i titolari di questi percorsi di riutilizzo sociale della “roba” dei boss: i clan da oltre trent’anni hanno delocalizzato gli affari e si sono insediati nel tessuto economico del Centro Italia e del Nord, con la stessa facilità con cui, solo decenni prima, avevano portato avanti una graduale “occupazione” dell’economia delle regioni del sud Italia.

“Cascina Caccia, un luogo per i giovani ma c’è ancora tanta strada da fare”. Al forum nazionale sul riutilizzo sociale dei beni arriva dal Piemonte, ad esempio, la testimonianza di un gruppo di giovani che sulla cima di una collina, in provincia di Torino, a San Sebastiano da Pò gestiscono un bene confiscato alla ‘ndrangheta:  mille metri quadri di una cascina, comprensivi di un ettaro di terreno, noccioleto, orto e apiario. ” Si tratta di un bene confiscato nel ’96 alla famiglia Belfiore – racconta a Libera Informazione, Noemi. Il primogenito di questa famiglia sconta l’ergastolo perchè riconosciuto come mandante dell’omicidio del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, cui il bene è dedicato”. “Nonostante la confisca sia stata decisa a metà degli anni ’90 sino al 2007  – spiega Noemi – la famiglia Belfiore ha continuato ad abitare lì e solo da pochi anni il bene è tornato a disposizione della collettività”. Un percorso che non è stato accolto bene dalla popolazione del piccolo centro “impauriti dell’arrivo di una associazione come il Gruppo Abele che – tradizionalmente – si occupa di recupero dei tossicodipendenti”. Attualmente su quel bene arrivano tantissimi studenti da tutta Italia, grazie alle gite di istruzione e d’estate i volontari dei percorsi “E!state Liberi”. Inoltre, sul bene si produce il miele che viene distribuito in tutta Italia. “Nonostante le numerose attività che svolgiamo – commenta Noemi -. c’è ancora molta diffidenza sul territorio, fatichiamo ad integrarci. Da poco una nota positiva: tante associazioni che hanno cominciato a svolgere a Cascina Caccia attività e partecipano dunque alla vita del bene confiscato alla ‘ndragnheta a pochi chilometri da Torino”. Confiscato il bene, riutilizzato a fini sociali, sembra dire Noemy, il percorso vero ha inizio adesso con la cittadinanza. La strada è ancora lunga e faticosa.

“Formello, un esperimento pilota alle porte della Capitale”. Non solo beni confiscati ma anche alcuni esperimenti “pilota” di beni ancora sotto sequestro da parte dell’autorità giudiziaria. E’ la storia che racconta Marco a Libera Informazione:  “Attualmente siamo gestori di un bene sequestrato in un comune in provincia di Roma, a Formello. Si tratta di una villa di circa 300 metri quadrati, che dal luglio del 2013 è stata assegnata alla nostra cooperativa e che per quattro anni ci vedrà operare sul bene attraverso una casa famiglia”. Il bene, spiega Marco, apparteneva ad una società che operava nel settore finanziario a Roma ed è solo una parte del tesoretto che i boss della famiglia Gallico, tramite un amministratore controllavano indirettamente nel Lazio. “Questa villa – dichiara Marco – è stata sequestrata nella stessa operazione che fece notizia pertò i sigilli al famoso “Cafè Chigi” in pieno centro a Roma”. “Attualmente – conclude – stiamo lavorando su questo progetto di una casa -famiglia ma ci rendiamo conto che servirebbe una cabina di regia complessiva sui beni confiscati nella regione, poichè i comuni possono fare tanto (e lo stanno facendo come nel nostro caso) ma ci sono alcuni aspetti burocratici che si possono risolvere solo con una cooperazione più ampia delle diverse istituzioni locali coinvolte nell’amministrazione di un territorio”.

“Libera Terra e tutto ebbe inizio”. E poi, infine, dalla Sicilia, prende la parola al Forum durante l’apertura dei lavori, Gianluca Faraone, alla guida del percorso Libera Terra, il più strutturato dei numerosi nati sui beni confiscati e che ha dato vita, in alleanza con il mondo della cooperazione e Libera, al primo esperimento frutto dell’applicazione della legge 109/96. La nascita di un consorzio sui terreni un tempo di boss del calibro di  Totò Riina e Bernardo Provenzano, è attualmente la più nota esperienza di riutilizzo sociale di beni confiscati in Italia e all’estero. “15 anni fa i cittadini mettevano piede per la prima volta sulla “roba” dei boss di Cosa nostra”, frutto dei proventi illeciti arrivati da omicidi, traffico di droga, corruzione in appalti pubblici, racket, usura e tanto altro. Un gruppo di giovani dell’alto Belice corleonese con questa azione dicevano pubblicamente che quel luogo non apparteneva ai mafiosi ma alla collettività: un atto forte negli anni ’90, poco dopo le stragi di mafia. “Siamo stati i primi – racconta Faraone – e oggi siamo fieri di poter testimoniare che su quei terreni lavorano tanti giovani che hanno avuto la possibilità di scegliere di restare in Sicilia, di avere un lavoro regolare e uno stipendio reale”. Restituire la libertà di scegliere, di vivere e di lavorare nella terra in cui si è nati è uno degli obiettivi che grazie ai beni confiscati si possono raggiunere. Non è stato facile, anzi. Incendi, intimidazioni, minacce e attentati sono all’ordine del giorno. Tutte le cooperative nate sui terreni confiscati ai boss, dalla Sicilia alla Puglia, passando per la Campania e la Calabria, oggi come tanti anni fa devono fare i conti con i mafiosi che – feriti nel loro potere economico non si rassegnao e provano a  scoraggiare qualsiasi tentativo di riutilizzo sociale di quei beni.

Tre storie diverse, quelle di Noemi, Marco e Gianluca,  e una sola sfida: partire dai beni confiscati ai boss, restituire il maltolto alla collettività, per mettere in moto percorsi economici che abbiano al centro il territorio, le persone, la solidarietà e l’inclusione sociale. Dentro al Forum tante altre storie che chiedono poche norme ma buone per ripartire con maggiore forza, in “rete” con tutte le parti sociali, le istituzioni e le diverse realtà economiche del Paese.

 

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