Il giorno della memoria e le provocazioni razziste
“Le caserme in disuso ai rom, ma poi chiudiamolo dentro per vedere chi lavora e chi no, chi ha la tubercolosi e chi no, chi paga le tasse e chi no”. Il “Giorno della memoria” preceduto da quello delle incoscienti e razzializzanti dichiarazioni di una consigliera regionale leghista della Lombardia (cfr. Corriere della Sera del 26), in un paese che ha imboccato la pericolosa strada di un razzismo esplicito, aggressivo, eclatante e rozzo. Le teste di maiale recapitate, due giorni fa, all’ambasciata d’Israele a Roma e al Museo della Storia di Trastevere, dove è in corso una mostra sulla Shoah, sono l’altro messaggio mafioso di ostentazione razzista. Ma torniamo ai rom e alla (ultima) segregazione che si vorrebbe adottare. Le popolazioni romanì (rom, sinti e altre minoranze) sono, insieme agli ebrei, il gruppo che in Europa ha subito una secolare, diffusa e forte vessazione sia istituzionale che popolare.
I mestieri tradizionali di queste comunità zigane erano quelli di giostrai, musici girovaghi, allevatori di cavalli, venditori di oggetti lavorati a mano, in rame e argento, ossia tutti beni durevoli che comportavano spostamenti nelle varie piazze. Il loro nomadismo non è collegabile a vicende naturali e culturali, ma nasce da un’esigenza commerciale storicamente determinata, simile, per certi versi, a quella di altre categorie ( per esempio, artisti, hostess, camionisti, rappresentanti). Con il tramonto degli antichi mestieri è venuta meno anche la ragione e la voglia di spostamenti continui e, senza una identità professionale definita e con il diffuso stigma che accompagna queste popolazioni sono nate le difficoltà a trovare nuove collocazioni. In Italia il problema si è affrontato costruendo campi nomadi segregati , affidando le politiche riguardanti i romanì all’immigrazione con uffici comunali per “stranieri e nomadi” anche quando si tratta di italiani ( almeno la metà dei 150mila e più rom e sinti presenti in Italia ha la cittadinanza italiana). Un campo nomadi, anche quando gestito dai Comuni, è un luogo per la sua struttura generatore di disagio, umiliazione e devianza. Di solito sorgono (come quelli di Piacenza, di Bolzano) in estrema periferia, vi si vive in baracche o in roulotte, nei pressi di grande arterie stradali, non sempre attrezzato con luce, acqua e gas ( questo spiega anche gli incendi provocati da stufe alimentate da bombole e la possibile diffusione di infezioni).
La permanenza in questi centri può essere temporanea ma, quando il malcontento cittadino si fa sentire, vengono facilmente smantellati e spostati in altre zone. Fino alla prossima sollevazione popolare che li manderà via ancora. Un circolo vizioso che non riduce l’emergenza ma, anzi, l’accresce e la cronicizza. I rom finiscono per assomigliare allo stereotipo che li accompagna, sempre più segnati dal degrado, dall’abbandono scolastico e dalla devianza. Alla fine,la miopi politiche per la sicurezza che vanno avanti da molti anni, non fanno che aumentare l’insicurezza di tutti; delle vittime e dei responsabili di questo razzismo istituzionale. Emarginare, chiudere, espellere quello che riteniamo essere minaccioso e contaminante secondo l’ideologia razzista è molto pericoloso. Troppi hanno manifestato desiderio e intenzione di compiere atti di violenza verso neri, ebrei, rom e immigrati. Gli atti di razzismo non sono più fatti isolati e devono imporre una seria riflessione prima che si producano “fratture” nella popolazione con effetti imprevedibili.
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