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Vent’anni dopo l’omicidio del giudice Alberto Giacomelli

Di Rino Giacalone il . Dai territori, Sicilia

Il delitto è di quelli che fanno parte di una strategia. «Strategia di morte», firmata dalla mafia. È il primo di due assassini che nel giro di 12 giorni, nel settembre del 1988, scuoteranno Trapani, ma senza causare (si potrà capire da ciò che è accaduto negli anni che seguirono, fino ai nostri giorni) tanti sconvolgimenti, al solito l’emozione ha sempre presto ha lasciato spazio alla quotidianità e alla disattenzione rispetto all’evolversi della cosa mafiosa che in quegli anni proprio cambiava pelle e diventava impresa, entrando anche nelle stanze della politica, delle istituzioni  e degli uffici pubblici. Lo dimostreranno anni dopo gli arresti di «colletti bianchi», professionisti, imprenditori, politici ed amministratori, dirigenti di uffici tecnici.

Il giudice (in pensione) Alberto Giacomelli venne ucciso a Locogrande, nella via Falconara, esattamente 20 anni fa, il 14 settembre del 1988. Cercavano i mafiosi, così raccontò qualche pentito, un giudice da ammazzare nel trapanese, ma forse neanche questo è vero. E quel giudice da uccidere fu proprio Giacomelli. Totò Riina si ricordò di lui e di quella confisca firmata da Giacomelli nel gennaio del 1985 (quando il giudice presiedeva la sezione misure di prevenzione del Tribunale di Trapani) a danno di suo fratello Gaetano, al quale fu tolta una casa di Mazara. Un giudice quindi finito nel mirino perchè fosse consumata «una vendetta». Giacomelli, svelò il pentito di Mazara  Vincenzo Sinacori, fu ammazzato per «una questione di famiglia», non «famiglia» nel senso di Cosa Nostra, ma «famiglia di sangue», per avere toccato interessi propri dei Riina. Quella confisca era derivata da una delle prime sentenze di applicazione, e forse non solo guardando nel trapanese, della legge «Rognoni La Torre».

Il 9 settembre del 1987 contro quella confisca i Riina tentarono l’appello, Gaetano Riina cercò anche di mantenere il possesso di quella villa facendosi nominare «affidatario» ma ogni tentativo fallì, l’anno dopo l’ultima sentenza di rigetto, Giacomelli fu ucciso. La rivalsa fu compiuta e suonò anche come un «segnale» rivolto a chi andava parlando – allora timidamente – del destino dei beni confiscati alla mafia. E in effetti dovranno passare anni prima che di questo si sia tornato a parlare e ad agire in maniera diversa e concreta. Tanto che un prefetto, Fulvio Sodano nel 2003, per essersene interessato, per avere messo in moto la macchina delle assegnazioni dei beni confiscati, diventò tanto tinto agli occhi dei mafiosi che liberamente andavano dicendo in giro che a Trapani non lo volevano più.

Alberto Giacomelli quel 14 settembre del 1988 risultò per i sicari mafiosi un obiettivo agevole da colpire, di solito si muoveva da solo, e stava molto in campagna, così come facile fu, per altri killer mafiosi, uccidere 12 giorni dopo a Caltanissetta il giudice Antonino Saetta e il figlio che viaggiava in auto con lui, per poi la stessa sera tornare a sparare a Trapani, ammazzando Mauro Rostagno. La «strategia» mafiosa contro Giacomelli non si consumò solo col delitto, poi partì la delegittimazione, che nei fatti di mafia secondo un preciso rituale è una costante, colpa di una società dove è facile fare attecchire le fandonie e che è attenta a ciò che è pruriginoso, e così si cominciarono a raccontare episodi, risultati infondati, come la gestione di terreni e di soldi da parte del giudice, quasi che alla fine il colpevole della sua morte fosse stato lui stesso, e poi quando proprio non se ne potè fare a meno venne fatto saltare fuori un (falso) pentito che portò gli inquirenti a prendersela con una banda di balordi. Tante fandonie che misero anche in cirsi, e fecero entrare in contrasto i diversi corpi investigativi che lavoravano sul «caso».

Cosa che ovviamente alla mafia torna sempre bene. Il lavoro di indagine dei Carabinieri portò infine in anni recenti alla svolta, se ne scoprirono le ragioni, venne tirato fuori il foglio della sentenza di confisca firmato da Giacomelli e dove c’era scritto a chiare lettere il nome di Gaetano Riina. Totò Riina è stato condannato in via definitiva all’ergastolo per essere stato il mandante, Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani è stato assolto. Chi ha sparato è rimasto indenne, c’è una indicazione del pentito di Paceco Francesco Milazzo. I nomi di chi avrebbe ucciso il giudice Alberto Giacomelli sono scritti tra le otto pagine della sentenza che ha assolto il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga. Ciccio Milazzo è l’unico che ne parla, che parla di un «summit» per organizzare il delitto. I nomi sono quelli  di Pietro Armando Bonanno e Francesco Bica, il primo in carcere, il secondo tornato libero. Contro di loro però le parole di un solo pentito non bastano più, in questi 20 anni le leggi sono cambiate, e al solito a giovarne è stata Cosa Nostra.

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