Caso Alpi, il dna sulla Toyota non è della giornalista
Il pick-up Toyota acquisito nel 2006 dalla commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Carlo Taormina non avrebbe relazioni con l’auto dove sono stati uccisi la giornalista Ilaria Alpi e il suo operatore Miran Hrovatin. Il Dna isolato da una macchia di sangue ritrovata sull’auto non è infatti attribuibile ad Ilaria Alpi.
Dna incompatibile
Lo conferma una perizia della procura di Roma, firmata dall’ematologo Renato Biondo, che aveva disposto un esame per verificare la compatibilità tra le macchie di sangue repertate dal pick-up e il codice genetico dei genitori di Ilaria. Con lo scopo di accertare che proprio su quell’auto fosse presente la giornalista. «Solo uno dei campioni ha permesso di estrapolare un profilo di Dna – scrive il perito della Procura di Roma- utile alla comparazione con il profilo ricavato da quello di Giorgio e Luciana Alpi». Biondo riporta che «tale profilo è prodotto da una commistione di Dna di almeno due tipi» e che dopo che sono state effettuate le comparazioni con quello fornito dai genitori di Ilaria Alpi si è esclusa la compatibilità.
I dubbi sul pick-up
La Toyota pick-up fu acquisita dall’allora commissione parlamentare di inchiesta a Dubai da una fonte vicina alla commissione stessa. Fin dal suo arrivo in Italia sono stati sollevati pesanti dubbi sull’auto, ritenuta non effettivamente quella sulla quale viaggiavano Ilaria e Miran. Il risultato odierno della perizia non fa che confermare i dubbi che già la famiglia e i suoi legali nutrivano sull’auto e sull’operato tutto della commissione di inchiesta. Vi è dunque un problema a monte: un’auto differente da quella utilizzata dai giornalisti del Tg3 con conseguenti risultati dei test ematici che confermano che non vi fosse relazione tra Ilaria Alpi e il sangue trovato su una macchina che non sarebbe quella dove ha trovato la morte. La commissione di inchiesta non ha spiegato in base a quali accertamenti ha ritenuto che proprio l’auto riportata in Italia fosse quella coinvolta nell’agguato.E i dubbi sulle perizie sull’auto sono stati spesso sollevati anche dalla famiglia Alpi. Mariangela Gritta Grainer, portavoce dell’associazione Ilaria Alpi, raggiunta da Libera Informazione al telefono ha espresso infatti forti dubbi sull’operato dei periti della commissione. «Da tempo avevamo chiesto delle verifiche ed espresso il nostro disappunto su alcune perizie che chiaramente non giustificavano alcune decisioni, come quella del portare in Italia quel pick-up». Gli avvocati dei genitori di Ilaria incalzano: «A parte le perplessità legate al fatto che su quest’auto non si è saputo nulla per 14 anni, la consulenza mette in dubbio le conclusioni della Commissione parlamentare che che aveva concluso l’inchiesta escludendo la tesi del colpo a contatto sparato contro Ilaria Alpi secondo quanto rilevato sulla Toyota». «Questo risultato tecnico – continuano i legali della famiglia Alpi- dà ragione ai genitori della giornalista che da due anni chiedevano il prelievo del loro Dna ai fini degli accertamenti sulle macchie di sangue rinvenute all’interno del pick-up».
Il “caso Alpi” continua
Si tratta quindi dell’ennesimo particolare inquietante all’interno dell’eterno calvario giudiziario che contorna la vicenda di Ilaria Alpi. «L’ennesimo problema – dice Mariangela Gritta Grainer – un altro squarcio inquietante di una vicenda che, dopo questo accertamento, mostra come abbia agito negli scorsi anni la commissione di inchiesta presieduta da Carlo Taormina». Sicuramente l’ ennesimo oscuro tassello di un processo che sta ripartendo dopo che il gip Emanuele Cersosimo ha negato l’archiviazione. L’inchiesta è ora competenza del pm Giancarlo Amato, che dovrà decidere se rinnovare la richiesta di archiviazione al gip o approfondire la vicenda con l’esame di altri testimoni. Al momento unico condannato per il “caso Alpi” è il miliziano somalo Omar Hashi Hassan, che sta scontando ventisei anni di reclusione. In suo favore il 31 luglio scorso era stata depositata un’istanza di revisione del processo. La condanna per Hassan era passata in giudicato nel 2006, ma sulla scorta di nuovi elementi e nuove testimonianze, gli avvocati Natale Caputo, Douglas Douale e Antonio Moriconi avevano depositato l’istanza alla Corte d’Appello di Perugia.
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