In bilico giustizia e libertà di informazione
Sono passati quindici anni da quel 24 dicembre del 1992. La vigilia di Natale, scattò l’arresto di Bruno Contrada, dirigente del Sisde, accusato di essere un informatore di Cosa Nostra, con stretti rapporti con i boss di cui avrebbe favorito fuga e latitanza. In questi giorni Contrada, malato di diabete, ha ottenuto la possibilità di essere trasferito all’ospedale Cardarelli di Napoli, lasciando il carcere dove è recluso dal maggio scorso. Sì perché negli anni l’accusa nei suo confronti è stata formalizzata in “concorso esterno per associazione mafiosa” e “ ‘u dutturi” è stato condannato a 10 anni di carcere. Nel ’96 la prima sentenza, ribaltata in Appello nel 2001 ma confermata in Cassazione il 10 maggio scorso.
Le condizioni di salute dell’ex “servitore” dello Stato hanno animato in questi giorni un fitto dibattito sulla necessità di mantenerlo dietro le sbarre e sulla liceità o meno della concessione della grazia da parte del presidente della Repubblica. A fronte di uno sparuto gruppo di vittime di mafia sostenitrici della probità del dottor Contrada (Michele Costa e Alessandro Giuliano, intervistati entrambi sul «Corriere della Sera» da Felice Cavallaro) è stata unanime la condanna da parti dei familiari delle persone uccise dalla mafia. La motivazione, ovvia è quella di garantire le cure a Contrada nel rispetto della certezza della pena. A «Repubblica» Rita Borsellino parla di questione di «sacrosanta giustizia» nel rispetto di uno Stato che suo fratello ha servito fino alla fine e che Contrada «ha tradito e per questo è stato condannato a dieci anni di carcere». Fa eco alla Borsellino anche la figlia del giudice Scopelliti, assassinato dalla mafia: «Lo stato di salute di Contrada deve – dichiara Rosanna a «L’Unità» – coniugarsi con la certezza dell’espiazione della pena». Contrada, dichiarato in condizioni di salute non gravi presso l’ospedale di Napoli, attende in questi giorni il pronunciamento della politica.
Giorni questi, in cui anche i rapporti fra stampa e magistratura generano cigolii inaspettati. A scatenarli la pubblicazione degli iscritti al libro mastro della mafia, su racket e appalti, fatta lo scorso 27 dicembre dalla sede palermitana del quotidiano la Repubblica. Dentro, centinaia di nomi di commercianti, imprenditori taglieggiati dal racket immediatamente invitati a denunciare dal presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello che dà loro, proprio in queste ore, una sorta di ultimatum. Li hanno letti in molti, nero su bianco nelle pagine palermitane del quotidiano, nomi e cognomi, accompagnati da cifre e numeri di cellulare, alcuni con annessi commenti sulla situazione dei pagamenti.
Ci sono, insieme ai marchi più o meno noti della Palermo imprenditoriale anche la società del Palermo calcio, che ha già sottolineato la sua estraneità ai fatti emersi dal libro contabile targato Lo Piccolo, ma anche Giuseppe Prestigiacomo, ex presidente di Confindustria Palermo, proprietario della Iso Industria citato nei documenti proprio per non aver ceduto al pagamento del pizzo. Nonostante i numerosi passi avanti fatti in questi ultimi mesi sul fronte del contrasto all’ala economico militare di Cosa nostra, soprattutto nel palermitano, lo scorso 27 dicembre la polizia su mandato della Procura di Palermo ha effettuato una perquisizione a sorpresa proprio nella redazione palermitana di Repubblica, portando via tre computer sui quali lavoravano i giornalisti Francesco Viviano, Alessandra Ziniti (autori della pubblicazione sul libro mastro dei Lo Piccolo) e il caporedattore Enzo D’Antona.
Non solo, anche le abitazioni dei colleghi sono state oggetto di perquisizione. L’ipotesi di reato contestata a seguito della pubblicazione sarebbe quella di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio. Immediata la solidarietà giunta dall’Assostampa, dalla Fnsi, dell’Unci Sicilia, dall’ordine regionale dei giornalisti e dai Cdr di due quotidiani dell’Isola. In un comunicato pubblicato il 28 dicembre su Repubblica il comitato di redazione della testata nazionale palesa come a «scadenze ravvicinate, con frequenza allarmante, si ripetano eventi di questo genere che, nella sostanza, ledono il principio della libertà di stampa».
E informa che ha già «dato mandato agli organismi della Fnsi di tutelare e difendere il diritto all’informazione e il diritto di tutti i giornalisti a continuare a svolgere senza alcun tipo di censura il proprio mestiere poiché, il ripetersi di questi atti sta compromettendo uno dei diritti fondamentali della democrazia: l’informazione non condizionata da alcun potere». Nonostante ciò dalle pagine di Repubblica in questi giorni continua a emergere la radiografia di quello che è stato in questi anni il regno dei Lo Piccolo nel capoluogo siciliano persino gli appalti per i parcheggi e quelli sulla cartellonistica.. A Sandro Lo Piccolo, playboy in latitanza, sarebbero inoltre riconducibili alcuni fra gli ultimi delitti di mafia compiuti in città dopo l’arresto di Bernardo Provenzano. Tutte verità che emergono dagli stessi scritti del laboratorio economico – finanziario dei Lo Piccolo ma anche dal racconto di nuovi pentiti come il capo degli esattori, Antonino Nuccio. Circostanze, quelle del racket sulla città, che non possono in alcun modo essere taciute o censurate perché c’è una Palermo che ha diritto a sapere e capire cosa per anni sotto i suoi occhi è accaduto in silenzio, così da darsi risposte concrete, fatte di nomi e volti, ai tanti perché di un’economia che non decolla, da sempre.
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