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Lea Garofalo ha trasformato l’amore in libertà

di Paola Bottero il . L'analisi, Senza categoria

La prima volta è stata uccisa dal compagno. Colpevole di voler prendere le distanze da quelle regole di ‘ndrangheta che non riconosceva, che non erano le sue. Colpevole di aver deciso di diventare testimone di giustizia, conoscendo perfettamente il costo della decisione: la vita.  La seconda l’abbiamo uccisa noi giornalisti. L’abbiamo spogliata di tutto, persino del nome. Abbiamo seguito la sua vicenda inseguendo un epiteto, la donna sciolta nell’acido, che evocava gli elementi base di un giornalismo che vende. La chiamiamo la regola delle tre esse: sangue – e c’era, ce n’era tanto, soldi – la base del potere di ogni organizzazione mafiosa, quelli che venivano messi in pericolo dalla sua testimonianza, sesso – pure quello, in fondo: negando l’amore, il compagno ha ridotto la loro storia a puro esercizio fisico, fino a quella notte di novembre di quattro anni fa. Abbiamo continuato a confondere una scelta di giustizia e libertà – quella di diventare testimone di giustizia – con il più conosciuto pentitismo. Quello di chi si pente e parla. Ma Lea nulla aveva, nulla avrà mai di cui pentirsi. Se non dell’amore.  La terza l’ha uccisa l’indifferenza, tagliente come una lama, scoperta post mortem, con la pubblicazione di una lettera in cui chiedeva aiuto al Presidente della Repubblica, raccontando la sua triste storia in modo asciutto e timido, chiudendo con un Please! che rimarrà per sempre incastrato negli uffici bui delle segreterie che hanno pensato di archiviarla, quella lettera, di non darle il peso che aveva.  La quarta l’ha uccisa il silenzio di chi sapeva e non parlava.  Lea Garofalo è stata uccisa tante, tante altre volte. Hanno provato a ucciderla in ogni udienza in cui si è cercato di ricostruire gli avvenimenti. Ma Lea non voleva morire. Lea non poteva morire. Quel cognome, Cosco, che le puzzava addosso da troppo tempo, al quale era riuscita a ribellarsi, doveva essere estirpato come un bubbone dal suo tesoro. Denise. Voleva che diventasse Garofalo come lei, la figlia. Non ce l’ha fatta. L’hanno fermata prima. Ma ha fatto molto di più. Ha fatto vincere l’amore. È riuscita a non farsi uccidere ancora e ancora dal suo assassino, che continuava a negare davanti alla figlia il suo immondo gesto. È riuscita a restituire umanità, proprio lei che ne era stata privata da tutti, a Carmine, ex fidanzato della figlia, che ha confessato. Ha permesso di far ritrovare i suoi resti. Ha restituito a Denise qualcosa di più concreto del solo dolore, su cui piangere.  Tra pochi minuti, alle 10 in piazza Beccaria a Milano, Denise accompagnerà, pur nascosta e protetta, il feretro di sua madre verso quella degna sepoltura che ha invocato per quattro lunghi anni. Saranno funerali solenni e pubblici. Sarà l’abbraccio a “una donna che ha pagato per il suo amore. Alla famiglia, alla sua terra, alla vita di tutti noi”, per rubare le parole di Tonino Dell’Olio. Ci sarà Libera. Ci sarà chi è riuscito a raggiungere la città da bere, ma ci sarà anche, con il cuore e la testa, chi ci ha provato e non ci è riuscito. Non ci sarà, invece, chi non ci ha nemmeno provato, a esserci. Chi non ci ha proprio pensato, di poterci essere, e sale ancora in cattedra a contare gli assenti.  Abbiamo scritto e letto di tutto, di e su Lea. L’abbiamo uccisa e uccisa e uccisa. Oggi è il momento del silenzio. Oggi è il momento dell’abbraccio.  Oggi, finalmente, Denise raggiunge il suo sogno: darle degna sepoltura. Oggi Denise la libera per sempre. Cercando di liberarsi un po’ anche lei. Ciao, Lea.

Scirocconews

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