Nel triangolo della lupara bianca, da un anno senza Valentino
Ignora se e dove gli auguri lo raggiungeranno. “E non saperlo ti consuma dentro, ti spegne lentamente”. Ma Anna Fruci non intende per questo rinunciare al diritto di scandire a voce alta “buon Natale”, rivolgendosi idealmente al quarto dei suoi sette figli, quello che non ancora ventenne uscì da casa un anno fa senza farci ritorno.
“Ormai la gente non mi chiede più se ho notizie, si comporta come se non fosse successo nulla, quasi come se Vale non fosse mai esistito. Altri, invece, quando mi incontrano abbassano gli occhi e cambiano strada. So che molti a Filadelfia sanno che fine ha fatto mio figlio”.
Se sanno, tacciono, però. E il silenzio sulla sorte di Valentino Galati, un passato immacolato di seminarista a Catanzaro e un presente pericoloso di custode di un villaggio turistico di Pizzo, non fa più respirare tra le mura domestiche di contrada Caria, a Filadelfia, grosso centro delle Serre vibonesi. Spente le fiaccole dei cortei di solidarietà, esaurite le parole di vicinanza pronunciate “a caldo” dai rappresentanti delle istituzioni e dai cittadini, diradate fino a sparire le visite degli investigatori al lavoro sulla scomparsa, in casa Galati resta, tra sigarette e calmanti, solo la dolente conta dei giorni – 365 il prossimo 27 dicembre – e la foto sorridente di Valentino che sul caminetto fa compagnia al ritratto del Sacro Cuore di Gesù. Con la stessa espressione bonaria, a pochi giorni dalla sparizione, il ventenne cominciò a campeggiare dalle pagine di cronaca dei quotidiani regionali mentre la casalinga Anna Fruci e il bidello Vincenzo Galati si aggrappavano all’ipotesi di un allontanamento volontario. “Una madre deve sempre sperare”. A un anno di distanza, però, della speranza è rimasta solo la parola e anch’essa smozzicata.
Di scomparse il pezzo di Calabria compreso tra Pizzo, Filadelfia e Curinga, a cavallo tra Lametino e Vibonese, raramente, infatti, ne ha conosciute di volontarie. Non lo era stata quella di Francesco Aloi, un ventiduenne scomparso da Pizzo 12 anni fa: davanti alla sua tomba che custodisce solo una scarpa da tennis ritrovata sulla spiaggia con pochi brandelli di carne, la mamma, Antonietta Pulitanò, non ha mai deposto un fiore: “Lì mio figlio non c’è”. Non lo fu, nel 2002, quella del 27enne Santino Panzarella, di cui la terra di Polia, a pochi chilometri da Filadelfia, ha restituito una clavicola. Non lo è stata, certamente, quella di Valentino Galati che con Santino ha con ogni probabilità condiviso cattive compagnie, errore e condanna.
“Lo hanno punito perché frequentava la moglie del boss”, ha rotto gli argini nei mesi scorsi la madre, tramutando in urlo i sussurri che avevano riempito Filadelfia già all’indomani della scomparsa del ragazzo. D’altronde il copione, da queste parti, non era inedito.
Solo un anno prima gli agenti della Mobile di Catanzaro avevano bussato alla porta di Tommaso Anello, Vincenzino Fruci e Giuseppe Fruci, ammanettandoli rispettivamente come mandante ed esecutori materiali dell’omicidio di Santo Panzarella, condannato alla più severa delle lezioni dalla relazione intrecciata con la moglie del boss di Filadelfia, Rocco Anello. Inutili gli accorati consigli della mamma, Angela Donato, che le regole di ‘ndrina le aveva apprese e rispettate per tutta la travagliata vita di moglie e amante di boss.
“Con Santino era un conflitto continuo e gli ripetevo spesso che gli Anello lo avrebbero ucciso o che non lo avrei mai più rivisto poiché in ambienti mafiosi si usano le lupare bianche. Specialmente nella mia zona vi sono state delle sparizioni di alcune persone per motivi simili a quelli di mio figlio e ne sono presunti responsabili la cosca degli Anello e quelli dei Fiumara. Mi riferisco alla sparizione di Francesco Aloi, alla sparizione di un ragazzo di Francavilla e di un altro ragazzo di Filadelfia, i cui genitori sono marmisti, ed il cui corpo è stato ritrovato in pozzo”.
Disperatamente pervicace, Angela provò a fare ragionare anche l’altra metà della coppia clandestina, la “signora”.
“Ammise la relazione con mio figlio: mi raccontò le sue vicissitudini e di essere stata costretta da giovane a sposare Rocco Anello e che da lui aveva avuto soltanto problemi per via della giustizia e che spesso era in carcere. Mi disse che non aveva potuto godere la sua giovinezza. Spiegai il mio trascorso e le feci capire che in ambienti mafiosi non è tollerabile che una donna sposata intrattenga una relazione con un altro uomo e che questa vicenda sarebbe soltanto finita male per entrambi qualora la famiglia Anello avesse avuto solo il sospetto di cosa stesse avvenendo”.
Insomma, questione di regole. Quelle che anche il giovane Valentino avrebbe infranto, trascinato nel baratro del più offensivo degli sgarri dalla stessa donna, nel frattempo e tuttora rimasta al suo posto dopo aver rifiutato l’offerta di protezione della magistratura. In mano ai segugi della Mobile non ci sono solo sussurri e urla, però. Il faldone che raccoglie il materiale sul “caso Galati” è pieno di elementi meno impalpabili, in parte forniti dallo stesso Valentino. Scriveva e riscriveva il ragazzo di Filadelfia, fedele alle abitudini apprese in seminario. Sfoghi, lettere. Tutto nel computer portatile ritrovato sulla scrivania della reception del Club Med di Pizzo, da dove – hanno riferito i colleghi custodi – si sarebbe allontanato a bordo della sua auto senza fare più ritorno.
Tra i file passati in rassegna dai poliziotti c’è la conferma dei sussurri, ma c’è anche di più: una lettera indirizzata al boss Anello per chiedergli perdono dell’oltraggio. “Se il ragazzo l’ha davvero consegnata si è praticamente condannato a morte”, ragionano a bassa voce gli investigatori, gli stessi che hanno lavorato sul caso di Santino e che presto sfileranno davanti ai giudici nel processo contro i fratelli Fruci e Tommaso Anello, fratello del boss. Gli stessi, infine, che sulla vicenda di Valentino hanno sperato di ricevere qualche elemento utile da Francesco Michienzi, amico di Panzarella e testimone della “lezione” impartita al 27enne il 10 luglio 2002.
“Appena il cofano si aprì vidi Santino con il volto dilaniato e sanguinante che tentava di alzarsi dicendo: “Aiuto, bastardo, mi ha sparato”. Io ero letteralmente agghiacciato. Giuseppe Fruci prese una pistola automatica da sotto la maglietta.. L’arma si era inceppata e cercò più volte di sbloccarla, e quindi chiamò suo fratello Vincenzo che con una manovra rese funzionante l’arma, quindi si avvicinò a Santino ed esplose un colpo alla fronte freddandolo. Io ero raccapricciato. Giuseppe Fruci ha detto più volte di chiudere il cofano, ma un ginocchio di Santino ne ostruiva la chiusura. Porto indelebile il ricordo di Giuseppe che più volte sbatteva il cofano della 164 alla gamba di Santino prima di riuscire a chiuderlo”. Un ricordo che, insieme con la paura di essere il prossimo della lista, persuase Michienzi a mettersi nelle mani delle forze dell’ordine permettendo di risolvere almeno uno dei casi di “lupara bianca” della zona.
Angela Donato si è costituita parte civile nel processo contro i presunti assassini del figlio. Le altre madri aspettano ancora.
Trackback dal tuo sito.