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Quando cosa nostra spezzò la vita di Paolo Borsellino e il sogno di Rita Atria

Di Anna Foti il . Dai territori, Sicilia

“Non c’è
più tempo”. Così Paolo Borsellino presagiva che la drammatica sorte
dell’amico e collega Giovanni Falcone avrebbe raggiunto anche lui. Non
c’era più quel tempo per finire il prezioso lavoro che era stato cominciato.
Era il maggio del 1992 quando la strage di Capaci segnò il culmine
dell’attacco della mafia allo Stato e ad irrompere furono la sensazione
di sconfitta e l’impotenza, per Borsellino molto differente dalla resa.
Sapeva che sarebbe stato fermato e questo lo obbligò ad andare avanti.
Arresta il suo operato contro Cosa Nostra un’autobomba sotto casa della
madre, in via D’Amelio, che esplode il 19 luglio1992 uccidendolo insieme
al caposcorta Agostino Catalano, ad Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli,
Walter Eddie Cusina e Claudio Traina. A quella disastrosa deflagrazione,
che ha lasciato oscurità sull’identità di chi ne abbia mosso le fila,
sopravvive solo Antonino Vullo. Il fratello Salvatore ha gridato alla
strage di Stato. La sorella Rita ha imbracciato la strada della testimonanza
e della memoria. Cosa Nostra è lì dove è nata, in Sicilia. Ancora
radicata  come dimostrano le denunce degli imprenditori minacciati
dal racket. Dunque Cosa Nostra ancora esiste ma esiste anche un tentativo
di nuova coscienza, di ribellione. Forse, anzì sicuramente, questo
tentativo aleggia più in Sicilia che dalle nostre parti, dove il radicamento
della ‘ndrangheta è indiscusso ma nessuno denuncia, dove la paura è
più forte e questa coscienza fatica a destarsi. Ci vogliono radici
profonde per veder crescere fronde capaci di offrire ombra. Come quelle
dell’albero che sorge nel centro di Palermo al numero 23 di via Emanuele
Notarbartolo, reggente del Banco di Sicilia ucciso nel 1893 e prima
vittima di mafia, e che accoglie sul suo tronco i pensieri e le riflessioni
di chi non vuole dimenticare. Tali radici necessitano di un terreno
che non sia arido e ostile. Un terreno che riscopra risorse anche laddove
sia stato defraudato di ogni nutrimento. Quella risorse che la vita
ha negato alla giovane Rita Atria, non sopravvissuta all’omicidio di
Paolo Borsellino di cui, dopo una vita di omertà, era riuscita a fidarsi.
Non leggeremo mai su quell’albero le parole che Rita scrisse qualche
istante prima di “volare” via da un mondo che non riusciva più
a darle speranza. 

“Ora che
è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella
mia vita. 
Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato
mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini
a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame
di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi
combarrete la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo
noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto
per ciò in cui credevi 
ma io senza di te sono morta” –

Rita Atria 

Si chiude tragicamente
la travagliata storia di speranza e disincanto di Rita Atria, figlia
di Vito e sorella di Nicola uomini d’onore assassinati in Sicilia,
a Partanna in provincia di Trapani, negli anni ’80. Un’epopea di promesse
infrante e un sogno spezzato dagli eventi drammatici che nel 1992 culminarono
negli attentati ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La storia
di Rita torna ad interrogare le coscienze di ciascuno, riproponendo
con forza la speranza di un mondo pulito e giusto, quello che insieme
alla nuora Piera aveva desiderato. La storia di un coraggio che non
sopravvive al tradimento della cruda realtà e che non resiste all’indignazione,
diffusa in certi ambienti, che giudica infamante la scelta di raccontare
la verità, di lottare contro un destino ereditato per costruirsi un
futuro diverso. Un giovane sogno, mai realizzato, che ha testimoniato,
nel suo nascere, la volontà di non arrendersi. Quel sogno improvvisamente
comincia a sgretolarsi in un giorno caldo del luglio 1992, quando le
edizioni straordinarie dei telegiornali annunciano la strage di Via
D’Amelio. La giovane diciassettenne, figlia di secoli di violenza,
giustizia privata e “rispettabile silenzio”, aveva trovato il coraggio
di affidarsi, di raccontare la verità a Paolo Borsellino. Ai suoi occhi
non inquinati dai retaggi familiari, egli era uomo prima che giudice,
Stato onesto contro la mafia. Solo qualche giorno dopo, il 26 luglio,
a Roma in via Amelia, il cui nome sembrava sfidare la sorte di Rita
e dove in veste di collaboratrice di giustizia era stata scortata, quel
sogno cede alla solitudine e alla disperazione, spezzandosi definitivamente.
Ma non è solo buio e non è solo silenzio ogni volta che si racconta
la storia di Rita. E’ buio ogni volta che si racconta la storia di una
speranza che muore. Rita era rimasta sola e aveva scelto di andare,
per non avere più paura. Ma resta la luce della verità che aveva scelto
di raccontare, anche se essa non riusciva più a risplendere dentro
di lei. Qualche parola di speranza ancora, poi quel “volo” che l’avrebbe
portata via da tutto quel dolore imposto e da quella mafia misteriosa
che con certezza avrebbe assunto di nuovo il sopravvento nella sua vita,
avrebbe privato quel futuro diverso del suo tempo per accadere. Anche
questa volta non c’era più tempo.

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