Rivedere la politica sull’immigrazione
Il dibattito pubblico in Italia su razzismo e xenofobia ripreso in queste ultime settimane dopo i ripetuti villani insulti alla ministra Kyenge “colpevole” di parlare troppo di integrazione, di accoglienza dei migranti e di “ius soli”, merita qualche ulteriore momento di riflessione. Penso ci possa essere un modo virtuoso di governare l’immigrazione se (tutte) le istituzioni si sforzano di includere e smussare le disuguaglianze. Questa azione è importante non solo per gli “svantaggiati” ma per tutti i cittadini perché gli effetti dell’esclusione, ad eccezione di qualche ristretta elite, la pagano, alla lunga, tutti. Quanto accaduto con il Sud del nostro paese dovrebbe essere di monito. Se una parte della popolazione non cresce economicamente, se ha minori opportunità di istruzione e poco peso sulla vita politica, il suo disagio si riflette immancabilmente sulla maggioranza. Più aumenta la forbice del divario sociale, più crescono forme di devianza, aumenta la spesa sociale, viene frenato lo sviluppo e l’innovazione. Occorre, poi, affrontare il problema dell’immigrazione nei singoli contesti territoriali per accorciare le distanze con gli stranieri. L’influenza dei contesti sugli immigrati è, spesso, scambiata per un dato culturale o, peggio ancora, naturale.
Questa concezione produce solo razzismo e non aiuta a trovare soluzioni adeguate. Se un amministratore pubblico ritiene che alcuni stranieri siano per cultura portati a rubare e a vivere nel degrado, si intestardirà negli sgomberi, aggravando la situazione.E, purtroppo, di esempi di questo genere, in diverse città, li abbiamo visti negli ultimi anni. Se invece individua il problema nel contesto, indirizzerà la su attenzione alle cause del degrado che sono la povertà, la dispersione scolastica, la mancanza di un alloggio dove poter vivere dignitosamente, lo stigma che viene impresso dalla società. L’immigrazione, lo ripeto da tempo, non si può controllare continuando ad invocare ossessivamente la sicurezza e con questo segregando in centri di “detenzione amministrativa” ( introdotti, bene ricordarlo, nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano e degenerati, poi, con la Bossi-Fini), in campi nomadi, recintati con filo spinato e cavalli di frisia alle periferie cittadine, emarginando, chiudendo, espellendo. Questa vecchia e miope politica è sotto gli occhi di tutti e porta, a lungo andare, a forme di rivalsa verso gli altri, all’odio, fa incattivire le persone ( le violente rivolte, nei mesi scorsi, nelle periferie di Parigi e Stoccolma, sono emblematiche a riguardo), genera fratture sociali difficilmente sanabili. E’ necessario abbattere tutti quei “muri” invisibili (o meno) che nel tempo si sono costruiti in molte città e che non garantiscono eguaglianza dei cittadini. La difesa della propria cultura per evitare “inquinamenti” della propria identità nazionale è una misera concezione. Le culture non sono “fortezze” e ben poco di quello che consideriamo “patrio” è , a ben vedere, indigeno. Il nostro paese, come gran parte di tutti i paesi del mondo, è il frutto dell’incontro di culture di varia provenienza di molti popoli. La nostra Repubblica è, appunto, “Res Pubblica”, non è, cioè, né di chi è arrivato prima né dopo. Ognuno deve fare la sua parte per sostenerla e migliorarla. Rivedere la politica dell’immigrazione è, quindi, essenziale anche per scrostare la legislazione vigente.
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