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Il metodo Falcone, 21 anni dopo

a cura di Narcomafie il . Senza categoria

«Lei ha dedicato gran parte della sua esistenza alla lotta alla mafia. È considerato dalle cosche il simbolo dello Stato da combattere, da colpire. Lei vive blindato. Ma chi glielo fa fare?». A rispondere a questa domanda, con un tanto semplice quanto profondo «Lo spirito di servizio» è Giovanni Falcone. Seduto alla sua scrivania, lo sguardo cupo, fermamente afferma di non aver mai pensato di abbandonare la lotta alla mafia.

Si fermerà solo – anzi sarà fermato – il 23 maggio 1992, poco prima delle 18. Dopo il rientro da Roma in qualità di direttore generale degli Affari penali dei ministero di Grazia e giustizia, l’arrivo all’aeroporto di Punta Raisi. La decisione di sedersi alla guida della Fiat Croma bianca, al fianco della moglie Francesca Morvillo; seduto dietro, l’autista Giuseppe Costanza. Davanti a loro, la Fiat Croma marrone con a bordo Vito Schifani (alla guida), Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro, i tre ragazzi della scorta. A chiudere il convoglio di auto, la Fiat Croma azzurra con a bordo Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo.

Durante il tragitto, sovrappensiero il giudice Falcone estrae le chiavi dal cruscotto; l’auto inevitabilmente decelera e l’autista chiede, spaventato, “Dottore, ma che fa? Così ci andiamo ad ammazzare”. Falcone si accorge del gesto e inserisce la chiave. Subito dopo, l’attentatuni. Cinquecento chili di tritolo che fanno letteralmente saltare in aria diversi chilometri dell’autostrada Palermo-Trapani, all’altezza dello svincolo per Capaci. I tre ragazzi muoiono lì, disintegrati. I coniugi Falcone sono trasportati d’urgenza all’ospedale di Palermo. Non ce la faranno. Giovanni Falcone muore tra le braccia del suo amico e collega Paolo Borsellino.

Dal punto di vista delle indagini, della lotta alla mafia, il metodo Falcone è, a distanza di venti anni, insuperato. A lui la paternità della Direzione investigativa antimafia e della Direzione distrettuale antimafia. Fu il primo a credere nei pentiti, nei collaboratori di giustizia. A lui il merito di aver istruito, insieme a Paolo Borsellino, il primo processo che si celebrò contro la mafia riconosciuta come associazione criminale: il maxiprocesso del 1986. Considerato emblema della lotta alla criminalità organizzata, in vita Falcone fu osteggiato, delegittimato. Costretto a pagare le spese correnti oltre che di vitto e alloggio per aver “soggiornato” nel carcere di massima sicurezza dell’Asinara insieme a Borsellino nel 1985, proprio per preparare le carte in previsione del processo dell’anno successivo. Non votato dai suoi colleghi quando si doveva nominare il consigliere istruttore della Procura di Palermo. Il suo amico così, il 25 giugno 1992, ricordò la vicenda Falcone-Meli: «Quando Giovanni Falcone, solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il Consiglio Superiore della Magistratura, con motivazioni risibili (legati all’anzianità amagrafica, n.d.a.) gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Csm ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli». Falcone nel 1989 fu oggetto di un fallito attentato nella sua villa all’Addaura. Gli dissero che “se l’era confezionato lui, perché la mafia non sbagliò”. E infatti, quel 23 maggio 1992, purtroppo non sbagliò.

Ventuno anni dopo, il volto sorridente di Giovanni Falcone è icona della lotta alle mafie. I trentenni di adesso, impegnati come cittadini attivi nel contrasto – a vario titolo, a vari livelli – alla criminalità organizzata, si auto definiscono “la generazione Falcone”. E sono oltre ventimila gli studenti che ieri sono salpati dai porti di Civitavecchia e Napoli per raggiungere questa mattina Palermo, a bordo delle due navi della legalità – ribattezzate Giovanni e Paolo (nella foto) –  nell’ambito dell’evento promosso dalla Fondazione Giovanni e Francesca Falcone. Ad accompagnarli, il presidente del Senato Piero Grasso, il ministro dell’Università, dell’Università e della Ricerca Maria Chiara Carrozza, il presidente Rai Anna Maria Tarantola e il professore di Sociologia della Criminalità Organizzata a Milano Nando dalla Chiesa (partiti da Civitavecchia); il sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria, il presidente di Libera e del Gruppo Abele don Luigi Ciotti, il commissario straordinario antiracket Giancarlo Trevisone e il testimone di giustizia Pino Masciari.  Ci sarà il dibattito nell’aula bunker e, alle 17.58, un minuto di silenzio in ricordo di quanto accaduto ventuno anni fa. Infine, alle 18.30 sarà celebrata la messa in memoria delle vittime delle mafie, presso il centro educativo Ignaziano.

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