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Il contagio

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All’interno del codice di procedura penale, la parola ’ndrangheta viene per la prima volta vergata il 4 febbraio 2010, quando viene inserita nell’articolo 416 bis che definisce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Nonostante l’organizzazione criminale calabrese non sia ovviamente nata tre anni fa. La sua pervasività è stata foraggiata dalla disattenzione – voluta o frutto di ingenuità – di uno Stato impegnato a fronteggiare il terrorismo e ad assistere al numero impressionante di omicidi di mafia che hanno insanguinato la Sicilia tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. Una forma mentis che si è tradotta in un vantaggio per la ’ndrangheta, diventata sempre  più potente: la cosiddetta “mafia liquida”, aggettivo che connota sia un’immensa ricchezza (si stima che il suo “fatturato” si aggiri intorno ai 45 miliardi di euro) sia la capacità di infiltrarsi nei vari territori. Fino a colonizzarli, termine utilizzato nella relazione della Commissione parlamentare antimafia del 2008 e ripreso nelle carte dell’operazione “Crimine-Infinito”, che la notte tra il 13 e il 14 luglio 2010 ha portato all’arresto di oltre trecento persone appartenenti all’organizzazione.
Centinaia di pagine di ordinanza firmate da Ilda Boccassini, a capo della procura milanese, e da Giuseppe Pignatone, allora suo pari a Reggio Calabria.

L’attuale procuratore della Repubblica di Roma si racconta insieme al collega Michele Prestipino, procuratore aggiunto presso la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, in una doppia intervista rilasciata al giornalista Gaetano Savatteri e riportata sulle pagine del libro Il contagio edito da Laterza. Entrambi in forza presso la procura palermitana – hanno condotto le indagini culminate nell’arresto, l’11 aprile 2006, del super latitante Bernardo Provenzano, ricercato dal 1963 – quando sono giunti in Calabria hanno da subito avuto la percezione che «il territorio era completamente diverso da quello su cui eravamo abituati ad agire. Ma ai pregiudizi abbiamo preferito la rappresentazione di dati certi che si evincono dalle indagini che conduciamo. Le indagini di questi ultimi anni dimostrano che esiste una sola organizzazione denominata ’ndrangheta, con una pluralità di articolazioni territoriali, suddivisa nella provincia di Reggio in tre mandamenti: tirrenico, ionico e centro o città, quest’ultimo corrispondente alla città reggina. All’interno del singolo mandamento coesistono le società e le locali. All’interno delle locali esistono le ’ndrine». Nella sola provincia di Reggio Calabria «esistono 74 cosche, un’altra settantina nel resto della Calabria. In ogni paese della provincia reggina esiste una locale di ’ndrangheta e per costituirla sono necessari almeno 49 affiliati. Come abbiamo verificato, chi costituisce la locale mafiosa in un centro della Lombardia o in una città del Canada continua a mantenere i rapporti con la famiglia d’origine, in Calabria».
Le province calabresi sono pervase dalla ’ndrangheta. «Seicentomila persone abitano nella provincia di Reggio Calabria – dichiara il procuratore di Roma – di cui 180 mila solo nella città di Reggio; si tratta quindi di realtà con una fittissima rete di parentela, come dimostra la scarsità di cognomi presenti sul territorio. Il dato numerico della popolazione ha come contraltare un numero altissimo di persone affiliate alla ’ndrangheta. Nel 2002-2003 Bagheria, con il potere apicale di Bernardo Provenzano, aveva cinquanta uomini d’onore su 60 mila abitanti, Rosarno su 15 mila abitanti ha 250 affiliati formali e un reclutamento settimanale di 3-4 nuovi personaggi. Il dato numerico quantitativo diventa qualitativo. Il territorio, dal punto di vista delle infrastrutture, appare molto isolato, con un’unica strada statale. Le province sono divise tra loro prima di tutto da un punto di vista fisico».
La forma mentis degli appartenenti alla ‘ndrangheta è sovrapponibile a quella di un affiliato di una qualsiasi altra organizzazione criminale italiana: compiere qualsiasi illegalità in nome del controllo del territorio e dei soldi. La violenza viene però utilizzata come extrema ratio. Un aspetto di cui parlò anche Leopoldo Franchetti nella sua «Inchiesta in Sicilia» datata 1955: «La mafia non ha bisogno di adoperare attualmente la violenza o l’intimidazione diretta se non nel minimo numero di casi in cui usa la sua autorità. Essa ha ormai relazioni di interesse così molteplici e variate con tutte le parti della popolazione». Sottolineano Pignatone e Prestipino: «La ’ndrangheta è consapevole di avere una rete di persone che sono obbligate nei suoi confronti e dunque fa leva su quest’aspetto; ci sono molti modi di influire senza necessariamente ricorrere alla violenza». Quindi «la forza delle mafie – asserisce il procuratore Pignatone –  non è solo un uso estremo della violenza: il reale problema sono le collusioni. C’è stata e c’è una non consapevolezza anche voluta della gravità del fenomeno. Chi scende a compromessi sottoscrive un patto di convenienza. Prendiamo ad esempio un imprenditore: il confine tra un soggetto vittima e uno colluso è labile, anche se va sottolineato che tutti i casi in cui un imprenditore è intraneo hanno un denominatore comune, cioè l’iniziale richiesta di pizzo nei suoi confronti».
L’imprenditoria infatti rientra a pieno titolo nella rete di persone obbligate a cui si faceva riferimento. Il procuratore aggiunto Michele Prestipino sottolinea che «quando la ’ndrangheta controlla il mondo dell’impresa, snatura la composizione sociale della forza lavoro. Quando le cosche più potenti impongono i propri uomini, la relazione non si esaurisce al momento dell’assunzione: chi ha ottenuto il lavoro diventa pedina dell’organizzazione dentro l’azienda oppure mantiene un dovere di riconoscenza nei confronti del mafioso che lo ha fatto assumere». Prosegue: «La ’ndrangheta è l’unico competitore economico ad avere liquidità in questo periodo di crisi e ha anzi il problema di investire le risorse sporche mentre altri non sanno dove reperire le ricchezze. In questo modo entra nel mondo delle imprese.
Il porto di Gioia Tauro è uno specchio fedele del significato della presenza mafiosa. Il porto è una della fonti economiche primarie della regione, snodo per il Mediterraneo. Nasce già con la ’ndrangheta nel Dna tant’è vero che fu inaugurato anche alla presenza dei Piromalli; per ogni container movimentato bisognava pagare tangenti di un dollaro e mezzo alla ’ndrangheta, come hanno dimostrato una serie di dialoghi intercettati attraverso le microspie.
La ’ndrangheta è entrata nel sistema imponendo la manodopera, facendo patti collusivi, inserendosi in piccole società portuali. Attenzione però: il mercato non si è guastato perché la ’ndrangheta si è infiltrata, ma essa si è infiltrata perché il tessuto del mercato era predisposto. La ’ndrangheta aggiunge violenza al suo essere operatore economico, il problema in Meridione è dentro il mercato che gli economisti chiamano assistito, come ad esempio la cassa del Mezzogiorno. Manca la trasparenza, c’è poca competitività, le zone di opacità rappresentano un humus per la ’ndrangheta».
Come fare dunque per rendere sterile questo terreno così prospero per le mafie?
«Nel corso degli anni – ha spiegato Giuseppe Pignatone –  tanti uomini dello Stato hanno fatto accordi con le mafie ma molti altri hanno ben lavorato diventando anche vittime della mafia. In Sicilia è maturata una coscienza, in Calabria si sono segnali positivi». Gli fa eco Michele Prestipino: «Francesco Fortugno è la dimostrazione della possibilità di dire di no alla ’ndrangheta. Possibilità purtroppo pagata con il prezzo altissimo della vita». Il vicepresidente del consiglio regionale della Calabria fu infatti assassinato a Locri il 16 ottobre 2005. Vi sono poi le donne che si sono ribellate alla ’ndrangheta, dall’interno: Giuseppina Pesce, Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola, Santa Buccafusca. E ragazzine come Roberta Bellocco, che nel 2009, al termine di un incontro sulla legalità tenutosi all’interno della scuola che frequentava, si è presentata al pubblico leggendo una lettera struggente. All’epoca aveva 17 anni e un padre rinchiuso in regime di carcere duro perché accusato di reati di stampo mafioso. «Attraverso il suo vissuto e la sua vita rocambolesca ho capito cosa sia la legalità. Non so dare di essa una definizione, ma so che è tutto quello che non ti limita i valori, i sentimenti, le dimostrazioni d’affetto, la vita famigliare». Il giorno dopo i quotidiani la etichetteranno come la “figlia del mafioso” scatenando le ire della madre. Come esiste la Corleone di Placido Rizzotto e di Bernardino Verro, esiste anche la Calabria sana, che lotta e cerca di opporsi al volere della ’ndrangheta. Perché non si può generalizzare, gettando acqua sul fuoco della passione simbolo dell’impegno di magistrati, forze dell’ordine e società civile nel contrastare le mafie.

Michele Prestipino e Giuseppe Pignatone incarnano questa responsabilità, mettendo in gioco la propria vita. Che trascorrono in maniera blindata, sotto scorta. E che nel 2010, è stata minacciata. Il 3 gennaio scoppiò una bomba alla Procura generale di Reggio Calabria, il 27 maggio fu recapitato a Pignatone un proiettile: stessa sorte toccò al procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, al presidente di Confindustria in Sicilia Ivan Lo Bello e al suo collega Antonello Montante. La forza della repressione giuridica pone dunque la ’ndrangheta in una posizione di attacco, ma «la repressione non è sufficiente – chiosano i procuratori Michele Prestipino e Giuseppe Pignatone – perché quello che avviene in ambiti quali l’economia, la cultura, l’informazione, la politica nel senso più lato del termine, è assolutamente decisivo per il contrasto alle mafie. Infine, rimaniamo convinti, per nostra impostazione personale, che sono decisive le scelte personali di ognuno di noi».

Marika Demaria per Narcomafie

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