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Cittadinanza e razzismo

di Piero Innocenti il . Senza categoria

Proviamo ancora a fare qualche breve considerazione sul lungo e tortuoso accesso alla cittadinanza italiana da parte degli stranieri nati in Italia e/o residenti da molti anni come lavoratori, traendo lo spunto dai vergognosi e rozzi insulti rivolti, subito dopo la sua nomina, alla nuova Ministra dell’Integrazione Cecile Kyenge, la italo-congolese “fiera di essere nera”. Già in passato abbiamo espresso alcune riflessioni in merito alla legge sulla cittadinanza ( L.91/1992), varata quando il nostro paese era già meta di immigranti, secondo cui hanno diritto di diventare italiani soltanto i figli, nipoti o coniugi di italiani. Vige, lo ricordiamo, il principio secondo cui la cittadinanza si trasmette solo per consanguineità (jus sanguinis) e non anche nascendo su un dato territorio (ius soli). La disciplina italiana sul tema è tra le meno inclusive in Europa (da anni, giacciono in Parlamento almeno una ventina di disegni di legge mai approvati per gli atteggiamenti ostili verso l’immigrazione). La cittadinanza per residenza, peraltro, ( dieci anni per gli stranieri che risiedono stabilmente sul territorio nazionale, che si riducono a quattro se si è “comunitari”, mentre negli Usa sono sufficienti cinque anni con la “green card”), non è automatica trattandosi di una “concessione” sottoposta alla verifica di una serie di parametri relativi al reddito, alla conoscenza della lingua italiana, al tipo di contratto di lavoro ecc…

Perché, dunque, questo retaggio primordiale che privilegia i legami di sangue su quelli di convivenza e di cooperazione? Perché frapporre ostacoli alle naturalizzazioni in un periodo storico come l’attuale in cui anche il nostro paese sta diventando multietnico? Quali sono le paure? Dove sta scritto che l’umanità debba essere divisa in razze e, soprattutto, chi legittima la supremazia di una sulle altre? Che ci siano, in alcuni ambienti politici, voglie “razzializzanti” con lo scopo di tenere particolarmente strette le maglie della cittadinanza, emerge anche dalla lettura del “Manifesto sulla cittadinanza”, elaborato nel 2010 dalla Fondazione Magna Charta, presieduta dall’allora senatore Gaetano Quagliarello, oggi ministro per le Riforme Costituzionali. Nel citato documento si richiamano le radici storiche e quelle etno-culturali – che nulla hanno a che vedere con lo status di cittadini –parlando di un ethnos che prevale su un altro e di “..virtù civiche che non sono innate ma debbono essere raggiunte attraverso un processo formativo fondato su radici storiche e matrici etno-culturali comuni”. La verità è che il nostro paese non è un condominio privato, ma una Repubblica (“Cosa Pubblica”), non è la casa di un ethnos ma appartiene a tutti quelli che sono soggetti alle sue leggi e, quindi, sono tra loro uguali. Farà bene a ricordarselo il ministro Quagliarello ora che ha il delicatissimo compito di porre mano, insieme ad altre forze politiche, a riforme così importanti, magari rileggendo tutte quelle sentenze della Corte Costituzionale (cfr, la 120/1967, 54/1979,199/1986, 28/1995, 203/1997) che, negli anni, hanno stabilito che il principio di eguaglianza include anche gli stranieri.

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