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Il dibattito: Nella mafia non c’è il Vangelo

di Antonio Maria Mira il . Calabria

Il quotidiano l’Avvenire ha pubblicato oggi due interessanti interviste, realizzate dal giornalista Antonio Maria Mira, sul rapport tra Chiesa e mafie.  Pubblichiamo di seguito le interviste a monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di beatificazione di padre Pino Puglisi, e quella a Giuseppe Pignatone, ex Procuratore capo a Reggio Calabria, oggi a Roma.

Bertolone: «Divergenza insanabile, non dobbiamo cessare di ribadirlo»

«Noi uomini di Chiesa dobbiamo essere molto più costanti e incisivi nel ribadire che tra Vangelo e mafie c’è un’inconciliabilità assoluta». Sono parole molto chiare quelle di monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace e postulatore della causa di beatificazione di don Pino Puglisi.

Le mafie hanno sempre utilizzato le religiosità, sia nei loro “riti” che in esibite devozioni.

«Che sono false. I mafiosi, con il loro rito di affiliazione, scelgono di appartenere a un’altra religione con a capo un padrino. Una scelta radicalmente diversa da quella di tutti gli altri battezzati cristiani, in netta antitesi con i valori evangelici. Ed a nulla vale l’immagine che la mafia costruisce di sé, dipingendosi quale organizzazione attenta ai principi del cristianesimo mediante la continua ostentazione di simboli religiosi e di immagini sacre: il distacco dagli obblighi del Battesimo è più che sufficiente ad attestare l’insanabile divergenza col cristianesimo».

La Chiesa è accusata di troppi silenzi.

«La Chiesa non ha mai ignorato il fenomeno mafia sin dal secondo dopoguerra. Tuttavia la sua comprensione, valutazione e azione pastorale è maturata gradualmente. Il bellissimo e significativo documento Cei “Educare alla legalità” del 1991, che varrebbe la pena riprendere per la sua attualità, e poi nel 1993 la visita in Sicilia di Giovanni Paolo II, prima, la morte di Puglisi dopo, segnano il punto di svolta: da quel momento la denuncia civile del fenomeno mafioso diventa la regola, accompagnata da una più incisiva azione pastorale volta alla riaffermazione dei principi evangelici nella loro dimensione umana e sociale».

Che ruolo può e deve avere la Chiesa nel contrastare le mafie?

«La Chiesa non è stata né sorda né cieca né muta. Molto s’è fatto, molto resta da fare nella coscientizzazione del fenomeno mafioso. Ma una risposta c’è, e ha un nome: padre Puglisi e la sua adamantina coerenza evangelica. La conversione del killer del sacerdote palermitano e la stagione di speranza che da quel sacrificio ha preso vita, sono la dimostrazione di ciò che occorre: la Chiesa, il popolo di Dio, il mondo non hanno bisogno di uomini contro, bensì di preti per l’uomo, di sacerdoti che avvertano il bisogno incoercibile di proporre, in ogni modo e con ogni mezzo, con coerenza, la verità di Cristo e ciò debbono farlo umilmente ed evangelicamente, se necessario fino al sacrificio supremo».

Come eliminare le infiltrazioni mafiose nelle feste religiose?

«Attraverso una pastorale ispirata a principi evangelici, l’attento controllo delle attività legate ai riti liturgici, la formazione dei membri delle confraternite, statuti adeguati dei comitati feste, oculato discernimento nella scelta degli uomini, e coniugando sempre il rispetto delle tradizioni popolari con le esigenze e, direi anche, le ragioni della fede. Principi dai quali, ad esempio, la Conferenza episcopale calabra è partita con un documento del 2007, “Se non vi convertirete perirete tutti”, in cui la questione, peraltro già affrontata anche in passato, è stata ulteriormente chiarita: le mafie, i padrini, la violenza sono fuori dal Vangelo, dunque anche dalle processioni».

Un’altra accusa alla Chiesa riguarda il perdono. I critici affermano che così si giustifica anche il mafioso: tanto poi c’è il perdono…

«Non va dimenticata la forza del perdono, che, al di fuori di ogni ipocrisia, è reale solo se accompagnato dal pentimento, dalla conversione e dalla espiazione della pena. Il perdono offerto non esclude la giustizia né sottovaluta il dovere della riparazione, ma non può escludere il recupero e deve evitare ogni istinto di vendetta e forma di schiavitù del cuore, che è sempre disumanizzante. Dirò di più: il perdono facilita la giustizia, incoraggia la verità e persegue la pace. Bisogna credere nella possibilità di una redenzione del criminale, dando a tal fine anche il nostro possibile contributo».

Pignatone: «I padrini vogliono usare la religione come strumento di potere»

«Credo che non possa più essere messo in discussione il tentativo continuo dei capi delle organizzazioni mafiose di strumentalizzare la religione e l’importanza che ha per le popolazioni italiane in genere e ancor più per quelle meridionali. Su questo ci sono tantissime prove accumulate nei processi». È netto il giudizio del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, una lunga esperienza di lotta alla mafia, prima a Palermo e poi alla guida della Procura di Reggio Calabria.

Ci racconti qualche esempio.

«C’è l’intercettazione di un grosso capo mafia di Palermo, di una decina di anni fa, che raccontava l’incontro con un prete che gli aveva parlato del peccato di mafia. E lui si vantava di avergli risposto: “Ma dove è scritto questo peccato?”. C’è anche il commento che due giorni dopo la morte di Giovanni Paolo II fa un altro importante mafioso siciliano: “Poverino che era. A parte quella “sbrasata”che ha fatto quando è venuto qua, un pochettino pesante per i siciliani in generale”. “Sbrasata” è un termine dialettale siciliano che si potrebbe tradurre come “sparata”. Dunque 12 anni dopo il discorso di Giovanni Paolo II ad Agrigento, con la condanna ferma della mafia, ancora ai livelli massimi di cosa nostra se ne dà questo giudizio negativo».

Quindi per le mafie la religione è uno strumento?

«È uno strumento per il dominio che cercano di esercitare. Un esempio sono le feste religiose che, sia in Sicilia che in Calabria, i mafiosi tentano di trasformare in momenti di ossequio per il capo, come riconoscimento del suo potere».

E secondo lei la Chiesa come risponde?

«Le prese di posizione ufficiali ai massimi livelli, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI, i documenti dei vescovi, sono di condanna senza appello della mafia, definita come un cancro della società. In mezzo c’è la vita di ogni giorno. Ma soprattutto c’è un atteggiamento diffuso, certamente non trascurabile, anche nella Chiesa così come in tanti settori della società, che dice che tutto sommato la mafia è un problema dello Stato e in particolare del suo apparato repressivo. Ed è molto pericoloso».

C’e una Chiesa troppo silente?

«Dobbiamo prendere atto che ci sono preti come don Puglisi e altri che dicono “non mi riguarda”. Che ci sia una difficoltà anche nella Chiesa in queste nostre società meridionali credo non sia contestabile. Serve una presa di coscienza e che, come diceva don Puglisi, ognuno faccia la sua parte».

Già, se ognuno fa qualcosa…

«… Il mondo cambierebbe. La Chiesa ha un ruolo importantissimo di educazione. La cultura mafiosa si assorbe fin dall’inizio, quando nasci appartieni automaticamente a un clan in lotta con gli altri. In certe realtà si assume col latte materno. E per il suo superamento la Chiesa può avere un ruolo fondamentale».

Servono preti antimafia?

«La Chiesa non deve fare né indagini né processi. Dobbiamo farlo noi, ottenendo condanne e, indirettamente, creando spazi di libertà. Dopo di che ci vuole qualcuno che questi spazi li occupi. E li tenga occupati. In questo sono importanti alcuni esempi di sacerdoti e di associazioni, che sono cresciute negli ultimi anni, gestendo beni confiscati col sostegno del Progetto Policoro della Cei. Combattere la mentalità mafiosa, dare esempi alternativi: tutto questo molti sacerdoti lo fanno e l’augurio è che siano sempre di più».

Alcuni cosiddetti esperti di mafia dicono che il concetto del perdono quasi giustifica i mafiosi…

«È assurdo. Qualche raro caso di mafioso seriamente pentito, non solo ai sensi del Codice, ma pentito nell’anima, c’è stato. Ma i mafiosi in quanto tali non si preoccupano del perdono futuro, ma solo del dominio presente. Nel momento in cui si ordinano reati gravissimi, non credo che i santini o l’appello continuo alla volontà di Dio possa camuffare quella che è la realtà».

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