Operazione Hiram: massoni “intermediari” dei mafiosi per “controllare” processi
Un «patto» tra mafia e massoneria che per la verità, come ha riconosciuto il capo della Procura antimafia di Palermo Francesco Messineo, non è una grande novità. Una occhiata agli archivi, giornalistici e giudiziari, e andando a ritroso di episodi di questo genere se ne incontrano parecchi, l’ombra di un «accordo» sotto la regia di qualche «loggia» si coglie anche nella storia del bandito Salvatore Giuliano che a proposito di intrighi è uno dei primi del dopoguerra. Per andare ai tempi più recenti basta ricordare la massoneria scoperta dietro le quinte del circolo Scontrino di Trapani, che era frequentato da due generi di «punciuti», i massoni ed i boss, ma c’erano anche politici, professionisti, banchieri, uomini, e donne, di cultura, esponenti di rango internazionale, amici della Libia e della Turchia. Sei logge c’erano dentro lo Scontrino, dalla Iside 2 alla loggia C, dove gli studi esoterici erano però gli ultimi dei pensieri, si occupavano di altro quei massoni, anche di seguire alcune vicende processuali.
Aggiustare i processi, ma non solo, anche rallentarli, o far si che finissero dinanzi ai giudici che erano sensibili ai consigli. Questo si scopriva a Trapani a metà degli anni ’80. Vent’anni dopo ecco che la stessa scena si ripete. La descrive l’operazione «Hiram» condotta giorni or sono ancora a Trapani da Dda e Carabinieri. La città dove negli anni ’80 si negava l’esistenza della mafia, e dove oggi si riconosce che pure qualche boss libero di girare per le strade lo si è avuto ma si nega l’esistenza di «complici». Otto gli arrestati di oggi, un compendio di chi costituisce il corollario più recente attorno a Cosa Nostra: non c’è professione che resti indenne, imprenditori, medici, agenti delle forze dell’ordine, sacerdoti, gran maestri.
Uno dei «pallini» di sempre della mafia, annota il giornalista e scrittore Francesco La Licata, è stato sempre quello di cercare altre vie per la risoluzione delle vicende processuali e poi avere sempre qualche buon amico in Cassazione. Per l’appunto anche questo è accaduto all’incirca tra il 2003 e pochi mesi addietro tra Trapani, Palermo, Mazara e Roma, e lo ricostruisce l’indagine «Hiram»: la massoneria si è fatta da intermediaria tra i mafiosi e impiegati della Cassazione perchè qualche processo finisse in prescrizione, perchè qualche ordinanza non venisse eseguita, perchè qualche carta finisse nel faldone sbagliato. Ma non è solo lo scenario che si ripete, ma anche qualche nome. Uno fra tutti quello di Mariano Agate, il «don» di Mazara del Vallo, il capo della mafia trapanese quando c’era Totò Riina che abitava da latitante a Mazara, ma che capo lo era (è) anche quando Riina a Mazara non c’era. Mariano Agate si dice che sia lui stesso un massone, il suo nome comparve pure tra gli iscritti della loggia Iside 2, scoperta quell’enclave sarebbe finito dentro un’altra. Mariano Agate, suo fratello Giovan Battista, il figlio Epifanio, erano tra i destinatari delle attenzioni che l’imprenditore mazarese Michele Accomando desiderava venissero prese in considerazione. E per arrivare in Cassazione o negli uffici giudiziari e far si che Giovan Battista Agate e suo nipote Epifanio non venissero maltrattati, Accomando secondo quanto raccontano i pm della Dda di Palermo, aveva trovato un faccendiere di Orvieto, Rodolfo Grancini, un impiegato della Cassazione, Guido Peparaio, un frate gesuita Ferruccio Romanin.
Ma al di là della faccenda di cronaca che presenta comunque scenari da non sorriderci su, l’indagine merita qualche riflessione in più.
La prima: se fosse stato già nel 2003 in vigore la legge che si vuole fare oggi per limitare le intercettazioni, reati e intrighi tra boss e massoni non sarebbero stati scoperti. Le intercettazioni che hanno permesso agli investigatori di carpire una serie di notizie, a suo tempo vennero disposte per una indagine su turbative d’asta, gare di appalto pilotate, truccate, secondo la proposta di legge per il reato di turbativa d’asta nessun gip potrà mai autorizzare un pm a eseguire intercettazioni. La seconda riflessione: mentre si parla tanto di privacy, tutela della riservatezza, ecco che si scopre che i mafiosi hanno una grande facilità di accesso a banche dati e archivi informatici.
Non è la mafia con coppola e lupara quella con la quale oggi si è chiamati a confrontarsi, ma è quella dei colletti bianchi, dei professionisti, dei banchieri e dei manager d’industria, questo ce lo diciamo da anni, ma alla fine c’è sempre qualcuno che ci «suggerisce» di fare una differenza tra la mafia che spara e uccide e quella che indossa grisaglie e siede dietro le scrivanie. La zona grigia della mafia è un qualcosa che non potrà mai essere snidata dall’Esercito che si vuole mettere per le strade, ma solo da una «intelligence» messa in condizione di lavorare, alla quale vanno concessi, invece di toglierli, nuovi strumenti.
Tornando all’inchiesta «Hiram»: dentro c’è la sottigliezza della mafia trapanese, Cosa Nostra non è fatta solo di «punciuti», e poi c’è il contesto di utili disponibilità che i mafiosi riescono sempre a trovare. Anche dentro uffici importanti, anche in quelli dove il crimine invece di aiutarlo dovrebbe essere combattuto. In questa operazione si è trovata una poliziotta che avrebbe letto per conto terzi gli archivi del servizio centrale operativo, in un’altra indagine, nel Belice, terra del super boss Matteo Messina denaro, si scoprì un carabiniere che accedeva da una stazione sperduta dell’Arma agli archivi dove si registrano le notizie di reato.
Ascoltando l’imprenditore di Mazara Michele Accomando parlare al telefono, gli investigatori lo hanno sentito anche discutere con un alto dirigente della Corte dei Conti di Palermo, tale Franco Trombetta, questi addirittura gli avrebbe svelato di stare attento perchè aveva saputo che mezzo Comune di Mazara era sotto controllo. Accomando però si sentiva sicuro, si vantava di frequentare una loggia (sarebbe stata individuata come vicina alll’ordine della Serenissima Gran Loggia Unita d’Italia, indagato è il gran maestro Stefano de Carolis) dove erano iscritti diversi potenti della Sicilia. Ora Accomando è in carcere a scontare già una condanna a 9 anni. Un processo scaturito dal fatto che tra i suoi impegni anche quello di occuparsi di due latitanti di mafia, Nicola Bonafede di Marsala e Andrea Manciaracina di Mazara, quest’ultimo è quel giovane che una ventina di anni addietro, molto conosciuto perchè figlio di un mafioso, ebbe l’occasione di potere parlare a quattr’occhi con l’allora ministro deli Esteri Giulio Andreotti in visita a Mazara, dentro una stanza con la porta chiusa e alla quale faceva da vigilantes l’allora sindaco di Mazara, perchè nessuno varcasse quell’uscio. Cosa si dissero i due mai si è saputo.
È rimasta l’annotazione di un poliziotto al quale parve strano che un ministro incontrasse in modo riservato il figlio di un sorvegliato speciale che anni dopo si scoprì si occupava della latitanza mazarese di Totò Riina. Mazara, Riina, la mafia e la massoneria. E i «papelli» che tornano sempre
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