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Mio padre lasciato solo dallo Stato

di Giuseppe La Pietra il . Interviste e persone

«Può forse una distanza materiale separaci dagli amici? Se tu desideri essere da Rae, non ci sei forse già?» Colibrì, Gufo, Aquila, Falco, sono i protagonisti di Nessun luogo è lontano, il celebre testo di Richard Bach. Qui tutti gli amici del protagonista hanno le ali, si perdono in infinite albe e altrettanti tramonti.  Una prosa magica e coinvolgente; vera, in cui il tempo è distrutto, lo spazio non ha più confini: c’è un legame, un ponte invisibile ma presente che unisce due anime. Due anime libere, è questo il messaggio principale: due anime amiche nella libertà. Così è stato per Margherita Asta e Marene Ciaccio Montalto, due anime unite nella libertà dalle mafie, a Parma. Due storie intersecate fra loro. A fare da denominatore comune Trapani, Parma, le uccisioni per mano mafiosa: la mamma e i fratelli di Margherita, il papà di Marene. E molto ancora.

A Trapani il sostituto procuratore Ciaccio Montalto aveva svolto le indagini sui clan votati al traffico di droga, al commercio di armi, alla sofisticazione di vini, ai rapporti tra mafia, politica e flussi di denaro, agli appalti per la ricostruzione del Belice dopo il terremoto del 1968. Ciaccio Montalto aveva intuito il ruolo nevralgico di Trapani nello scacchiere mafioso, la città del latitante Matteo Messina Denaro. La sua inchiesta sul traffico delle armi verrà ripresa dopo la sua morte dal magistrato Carlo Palermo, a sua volta vittima di un attentato (2 aprile 1985), quello in cui persero la vita Barbara Rizzo, Giuseppe e Salvatore Asta, mamma e fratelli di Margherita. La figlia del giudice Gian Giacomo Ciaccio Montalto ci accoglie in casa sua a Parma. È la prima volta che si racconta ad un giornale.  È minuta Marene, solare, la sua voce è pacata, lo sguardo profondo, fiero. Trent’anni di silenzio. Trent’anni di memoria custodita nel dolore perché: «Mio padre è stato lasciato solo dallo Stato, e noi anche. Per mia mamma, così come per me e le mie sorelle, il dolore andava vissuto dentro, privatamente. Che senso avrebbe avuto, magari, ricordarlo accanto ad alcuni di quegli uomini delle istituzioni che non fecero nulla per tutelarlo e con addosso ancora qualche ombra?».

Chi era Gian Giacomo Ciaccio Montalto?

Era mio padre. Meraviglioso, diventava bambino. Papà amava la musica classica, le buone letture, era colto; un padre attento e amorevole con noi tre sorelle e con la mamma, appassionato di vela. Credo che in mare egli provasse fisicamente quella ebbrezza di libertà che portava dentro di sé e che ci ha trasmesso, che animò  la sua vita personale e professionale. Non amava molto divertirsi, non era sempre allegro: era allegro quando era il momento, una persona seria. Però aveva un umorismo sottile, era incline allo scherzo.

Fra i tanti quale ricordo?

Una festa di carnevale, insieme al suo caro amico Giovanni Falcone. Allora, è andata così: un anno, nel periodo del carnevale, hanno deciso di travestirsi e di uscire alla sera con amici (ho un vago ricordo che uno di loro potesse essere Falcone): gli uomini si sarebbero vestiti da donne, e le donne da uomini. Al mattino quando noi bambine ci siamo alzate, stavano ancora ridendo: erano tutti in macchina quando sono stati fermati dai carabinieri; mio padre, vestito da donna (con tanto di parrucca e rossetto rosso) era alla guida e ha dovuto esibire i documenti: gli è letteralmente caduta la faccia quando il carabiniere, alla vista della patente, ha cominciato a guardarlo incredulo ed imbarazzato…

E del giudice Ciaccio Montalto?

Invece conosco poco del giudice. Era molto preso dal suo lavoro ma cosa in realtà facesse e di cosa si occupava l’ho appreso negli anni successivi, dopo la sua morte. Avevo 12 anni quando mio padre fu ucciso

Come andò?

Un giorno arrivò una strana telefonata. Avevamo da poco finito di pranzare. Fui io a prenderla. «Sei carina, perché non vieni a tal posto alla tal ora?» Ebbi la sensazione che qualcuno avesse alzato la cornetta da un’altra stanza. Pensavo che si trattasse di uno scherzo. Mio padre mi venne incontro e ricordo ancora oggi il suo pallore nel volto. Aveva ascoltato la telefonata. L’ennesima di quel tipo. Era consapevole del pericolo che stava correndo. Dopo quell’episodio prese la decisione di trasferirsi nella nostra casa di Valderice, in campagna. Lo fece per proteggere mia mamma e noi figlie.

E poi cos’accadde?

La sera del 24 gennaio era andato a cena con alcuni amici, in un paese poco distante da Valderice. Al ritorno non fece in tempo a scendere dall’auto e nemmeno riuscì a provare ad aprire lo sportello. I killer lo freddarono. Papà era riverso sui sedili anteriori della sua automobile, l’orologio del cruscotto era fermo all’1:12. Lo ricordo bene. I proiettili furono molti, il rumore scatenato da quella pioggia di fuoco notevole. Nessuno sentì e vide nulla. Mio padre fu lasciato agonizzante per molte ore, morì isolato, la notte tra il 24 e il 25 gennaio.

Non aveva la scorta?

No. Nonostante le ripetute avvisaglie e minacce per lui non fu mai prevista. Questa domanda l’ho ripetuta per trent’anni a mia mamma, senza ottenere risposta. C’è da dire anche che di recente ho saputo da un suo amico e collega che mio padre aveva più volte sostenuto come la scorta non aiuti a salvare delle vite ma ne mette in pericolo altre.

Cosa accadde da allora in poi?

Le telefonate minacciose non cessarono di arrivare. La mia famiglia fu messa sotto scorta. Ero accompagnata a scuola dagli agenti. Un giorno uno di loro mi chiese: «Hai paura?» La mia risposta fu molto determinata, ed è ciò che sento ancora oggi dopo trent’anni. «No. Ormai ho perso tutto quello che avevo da perdere.

E poi a Parma…

Dopo l’uccisione di mio padre, mia madre, nonostante le critiche che gli piovvero addosso per anni, ritirò la sua costituzione di parte civile al processo e decise di trasferirci a Parma. Io studiavo musica e a Parma c’era il conservatorio. Proprio nella nostra città mi sono diplomata in violoncello. Da gennaio, grazie soprattutto ad un’iniziativa presso il palazzo di giustizia di Trapani promossa dall’associazione nazionale magistrati, dall’associazione Ferus, da Libera Trapani ed altre care persone, sto provando a condividere con qualche intervento pubblico la storia di mio padre. Lo abbiamo fatto di recente anche a Parma, Reggio Emilia e Piacenza. Non nascondo però la difficoltà dinanzi a tutto questo. Non è facile. Faccio ancora fatica a coniugare la dimensione del ricordo intimo che ho di mio padre con la testimonianza pubblica. Vedremo cosa riserverà il tempo.

Ci salutiamo. Marene prende una busta, estrae alcuni fogli e ci fa dono – prezioso – di una lettera del papà. Riportiamo queste righe: «Credo però che tutti abbiano dentro di sè un proprio intimo, timido e desideroso di rivelarsi il meno possibile. E’ la parte più nascosta di noi stessi ed anche la migliore… Io credo che sia nostro dovere di partecipare alla vita, di azione, senza però, per questo cessare dal colloquio con se stessi, con il proprio io intimo e in tale modo riconsiderare le nostre azioni e le azioni degli altri, come dire la vita».

Giuseppe La Pietra per il Nuovo di Parma

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