Bregantini vittima del metodo Calabria
di Alessio Magro
Una promozione che non promuove, calata dall’alto, a interrompere un percorso di certo positivo. Senza motivazione. Ancora una volta. E così anche monsignor Giancarlo Maria Bregantini lascia la Calabria, terra di ‘ndrangheta e di addii forzosi. Lo fa «con dolore», piegandosi al verbo del Vaticano. Con un significativo «obbedisco». Obbedisce, come Garibaldi. Il vescovo della Locride come il condottiero massone. Tutti e due gloriosi in Calabria, poi fermati, colpiti, abbandonati. Ma promossi. Uno strano destino.
Dal 20 gennaio il religioso trentino sarà arcivescovo metropolita di Campobasso-Bojano. A nulla sono serviti la reazione dei fedeli, gli appelli di uomini delle istituzioni e degli intellettuali della Calabria, decisi nel chiedere uno stop al trasferimento, pronti a raccogliere le firme e a protestare a voce alta. Vivono la scelta del pontefice come una punizione, immotivata e intempestiva. Ma, dopo le indiscrezioni sulla stampa, la Santa Sede ha ufficializzato la decisione senza commentare.
Al vescovo di Locri l’ultimo abbraccio della comunità, con una messa celebrata tra applausi e lacrime sul sagrato della chiesa di Santa Maria del Mastro. Tanta commozione, segno dell’affetto della gente, dopo tredici anni di omelie. Anni vissuti non certo in silenzio. Ma con appelli a volte scomodi e tra la gente. Anni da prete di frontiera, da riferimento per gli onesti.
Bregantini arriva a Locri dopo la stagione dei sequestri, quando in Aspromonte ci andavano solo ostaggi, ‘ndranghetisti, carabinieri e strani personaggi con valigette piene di denaro. Dopo 11 anni a Crotone e poi a Bari, torna in una terra dominata dalle cosche e dalle logge. E si mette al lavoro. Ha metodi nuovi, sa usare i riflettori, ascolta la gente. Tanto basta per fare di lui un prete scomodo. Nascono le coop sui terreni confiscati ai clan, si fa l’educazione alla legalità. Ci sono anche le critiche: il lavoro dato ai figli dei boss, le tante passerelle mediatiche, le accuse di quieto vivere fino al viaggio in Germania dopo la strage di Duisburg. Ma operare nella Locride, anche il vescovo trentino l’ha capito da subito, è questione di equilibrismo.
Mediazioni con l’esistente e con la memoria del passato. Necessarie per confrontarsi con una dimensione fatta di mentalità massomafiosa, cosche agguerrite, istituzioni piegate all’interesse privatissimo. Mediazioni che, ad esempio, portano Bregantini a rendere omaggio alla figura di don Giovanni Stilo, il contestatissimo prete mafioso narrato da Corrado Stajano nel suo Africo.
Bregantini lascia, cede il testimone ai giovani. Non si ribella alla decisione pontificia, sa che la lotta alla ‘ndrangheta è di lungo percorso, è una questione di metodo e non di uomini. Ed è per questo che il suo trasferimento pone un interrogativo: perché ancora un segnale negativo per la Calabria onesta, una decisione improvvisa, non motivata. È questione di metodo: come investigatori, magistrati e giornalisti un religioso ha sempre le valigie pronte. Il Papa, poi, è sovrano infallibile, la sua decisione di trasferire Bregantini è giusta per definizione. Ma non in questo modo. E in un momento delicatissimo, dopo l’abbandono del prefetto Luigi De Sena, il bavaglio imposto a Luigi De Magistris e tanto altro. Un metodo che non funziona, che ferma chi si sporca le mani per cambiare le cose, è il metodo Calabria.
Le ultime parole di Bregantini sono per il futuro: la Calabria «è trattata ancora come una terra dimenticata. Mancano tre cose. Anzitutto che tutte le istituzioni facciano la loro parte, in maniera piena e leale, qualitativa e quantitativa. Manca poi, in secondo luogo il collegamento tra tutte le realtà positive e, quindi, una coordinazione attuata in miglior modo». Almeno su un punto, quello del fare rete, anche il vescovo trentino ha peccato di protagonismo. Al suo successore l’ingrato compito.
Alessio Magro
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