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Gomorra: Non basta dire che è un bel film

Di Alberto Spampinato il . Progetti e iniziative

(A proposito di scorte mediatiche e del ruolo che dovrebbe avere la RAI  secondo Ivan Lo Bello)

 
La meritata aureola del Festival di Cannes di assegnata a Gomorra, “film di verita’ e di dolore su Napoli, mai come in questo momento interroga e stimola le nostre  coscienze”, ha commentato a caldo il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E’ un esplicito invito a vedere questa pellicola senza fermarsi alle valutazioni estetiche o da addetti ai lavori, a rifletetre sulla realtà che porta in primo piano. Gomorra ci ricorda che nella nostra Italia ci sono coni d’ombra, luoghi bui in cui si verificano fatti di enorme rilevanza che tutti vorremmo (dovremmo) conoscere meglio.

Il triangolo Aversa-Casal di Principe-San Cipriano d’Aversa, teatro delle barbare imprese del clan Schiavone-Bidognetti, che ha enorme potenzialità economica e proietta i propri interessi sullo scenario nazionale, ne è l’esempio criminale più evidente. A me, fatte le dovute proporzioni,  suggerisce un’immagine forte e suggestiva: l’Afghanistan dei talibani che non fu tollerato dalla comunità internazionale in quanto luogo di incubazione del terrorismo internazionale. Forse dovremmo riflettere sul potenziale infettivo di “Gomorra” e di altri luoghi non meno significativi che vorremmo conoscere meglio: la Locride, con la proiezione internazionale delle ‘ndrine segnalata dalla strage di Duisinburg e dall’insediamento oltreoceanico di alcuni potenti boss; il triangolo Villabate-Altofonte-Bagheria, con le sue zone grige e le legittimazioni politiche sullo scenario nazionale costruite a partire da alcuni municipi con forti infitrazioni mafiose…
 
    Nonostante questi luoghi e queste vicende riguardino da vicino, e più di quanto si possa immaginare, anche i pacifici cittadini che vivono a Roma, Milano o Bolzano,  questi luoghi e queste vicende sono confinate nei bacini insuperabili dell’informazione locale, che per altro spesso è debole, acritica e influenzata da rapporti di forza in cui criminalità organizzata e poteri illegali contano molto e riescono a imporre una raccolta differenziate delle notizie che porta a cestinare quelle a loro sgradite o sfavorevoli. Questa regola è talmente entrata nella prassi, nelle regole del quieto vivere, che si sarebbe smesso di parlarne se non fosse per alcuni cronisti testardi e coraggiosi che si ostinano a sfidare il patto tacito del quieto vivere e per questo ricevono minacce, intimidazioni, danneggiamenti. Alcuni di loro, benché costretti a vivere sotto scorta, non desistono. E sanno bene che in Sicilia negli ultimi 40 anni  otto cronisti che non avevano rispettato la regola del quieto vivere sono stati uccisi e dimenticati. Bisogna rendere merito a questi cronisti che osano spingersi oltre il limite di sicurezza, e bisogna sostenerli.
 
    Il modo migliore di onorarli e di aiutarli a resistere consiste nell’affermare che  hanno ragione a dire che nella nostra Italia non dovrebbero esserci zone d’ombra, angoli bui, non illuminati dalla luce dell’informazione libera, completa e  indipendente. Non dovrebbe essere lasciato alla caparbietà e al coraggio personale di alcuni il compito di acquisire e pubblicare informazioni critiche raccolte sul campo. In questo compito dovrebbero cimentarsi, e non in modo episodico o marginale, anche i grandi giornali e le reti televisive nazionali, a cominciare dalla Rai, come chiedono la Fnsi, Articolo 21, e alcune personalità come Lorenzo Diana, l’ex parlamentare Ds e coraggioso accusatore del “clan dei casalesi”, costretto dal 1995 a vivere sotto scorta. Diana ha lanciato per primo l’idea di dare forza, coraggio e protezione a chi resiste alle vessazione delle cosche affiancando alle scorte di polizia delle “scorte mediatiche”.
   
    E’ importante che in questi giorni il presidente degli industriali siciliani Ivan Lo Bello abbia sottoscritto la proposta dicendo che il compito di assicurare le “scorte mediatiche” a giornalisti, politici, imprensitori dovrebbe essere svolto in primo luogo dal servizio pubblico radiotelevisivo. Le parole di Lo Bello dimostrano che appena si rompono gli schemi isolazionisti, quelli che in passato hanno fatto rivendicare ruoli e competenze escluivi in materia di impegno sociale antimafia, emerge un terreno d’incontro comune per tutte le iniziative della società civile, per quanto esse siano e rimangano diverse per natura e per matrice: il rifiuto del pizzo, inteso in senso largo, oggi accomuna l’impegno delle associazioni antiusura di cui è leader storico Tano Grasso, la Confindustria siciliana di Lo Bello, chi – come Nino Amadori e alcuni ordini professionali – mette sotto osservazione la “zona grigia” dei professionisti in rapporto di scambio con le mafie; e anche il sindacato dei giornalisti che ha lanciato una campagna specifica per dare forza e solidarietà ai cronisti minacciati e per rivendicare una organizzazione del lavoro giornalistico più adeguata per il giornalismo d’inchiesta e una nuova normativa in grado di aumentare la sicurezza dei giornalisti e di incoraggiarli a rifiutare un pizzo troppe volte pagato alle cosche, per paura o per scelta editoriale, sotto forma di autocensura, di notizie taciute, di oscuramento di fatti e di contesti.
 
In questo campo c’è molto da fare, e c’è lavoro per tutti: sindacato, ordini professionali, società civile, giornali, editori, politica… Dovremo trovare forme di impegno di comune per sommare le forze e la capacità di incidenza.

La Fnsi e Articolo 21 stanno già promuovendo alcune iniziative concrete di solidarietà a favore dei giornalisti minacciati in Sicilia, Calabria e Campania e sono in programma alcuni momenti di riflessione collettiva e di approfondimento su questi temi. Abbiamo fatto il primo passo nei giorni scorsi a Caserta, insieme al presidente Roberto Natale e al portavoce di Articolo 21 Giuseppe Giulietti recandoci a Caserta a trovare Rosaria Capacchione, cronista del “Mattino di Caserta” che nonostante le minacce dei boss casalesi – le ultime sono arrivate nei gironi scorsi, ed erano indirizzate anche a Roberto Saviano e Lorenzo Diana – continua a seguire passo passo le indagini sulla camorra.

Rosaria in questi ultimi tempi si è trovata spesso da sola a seguire le udienze del “processo Spartacus”: uno dei più grandi maxi-processi mai celebrati in Italia che si svolge, in varie tranche, dal 1995 contro centinaia di imputati. A questo processo i grandi giornali non hanno dedicato l’attenzione che merita. Come ha ricordato Lorenzo Diana, nel 2005, in primo grado il processo Spartacus si è concluso con 21 ergastoli e 750 anni di carcere e ai componenti del clan sono stati sequestrati beni per un miliardo di euro. “Un modo sconfiggere la mafia – ricorda Diana – è quello di fare conoscere i suoi crimini, le sue tristi imprese, di rappresentarle come parte della vicenda nazionale. di segnalare così la priorità politica e sociale della lotta per batterla. Senza l’attenzione dei media le mafie si sentono libere di agire, di minacciare, di punire chi si oppone. Più si abbassa l’attenzione dei media, più si lasciano le mani libere alle  mafie”. 

Per segnalare queste vicende, Roberto Saviano, ha lanciato un bengala pubblicando “Gomorra” e promuovendo l’omonimo film, Non possiamo limitarci a dire che Gomorra è un bel libro e un buon film. 

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