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Il continente inesplorato

Di Alberto Spampinato* il . Atti e documenti

Il cacciatore di belve feroci si affida a una vecchia regola: per non fallire il colpo, si avvicina alla preda e mostra il suo coraggio. Ma deve essere vero coraggio. Se negli occhi la fiera vede paura, il cacciatore è spacciato. Per chi va a caccia di notizie scottanti vale la stessa regola. Ecco perché è pericoloso, a volte mortale cercare certe notizie. Ecco perché solo alcuni giornalisti si cimentano con certe notizie. Ecco perché alcuni di loro perdono la vita e non ottengono neppure il compianto generale. Di solito, il loro comportamento è giudicato temerario, e sbrigativamente archiviato. Non si riconosce il valore sociale, il sacrificio in nome di collettivo, insomma l’eroismo civile a chi tenta di uccidere un mostro che semina strage: una tigre mangiatrice di uomini che tiene in scacco i villaggi, un mitico drago divoratore di fanciulle, un mostro che nessuno osa molestare.
Fuor di metafora, per i cronisti le belve feroci sono le notizie più pericolose, quelle che svelano il volto orrendo della mafia; quelle che rivelano gli affari illeciti di qualche potentato, gli scambi immondi fra politica e criminalità, i retroscena inconfessabili degli appalti, i patti illegali che dissanguano le finanze pubbliche, l’oscura origine di fortune personali inspiegabili…
Per trovare queste notizie, il cronista non può fermarsi al limite di guardia. Deve superarlo, deve avvicinarsi molto, deve ingannare i guardiani della soglia, deve superare vari ostacoli. Deve avere strategia, metodo, astuzia, intelligenza, determinazione, esperienza, capacità di riconoscere le fonti affidabili da quelle ingannevoli. Insomma, deve avere una professionalità specifica. E inoltre deve accettare una sfida che può costargli la vita.
Non è da tutti e non è solo una questione di coraggio. Il cronista che si avventura su questa strada ha l’indole del lupo solitario, che esce dal branco e si nasconde anche ai suoi compagni, anche ai suoi familiari. Solo così potrà addentrarsi fino al luogo di caccia più rischioso, dove nessuno dei compagni lo seguirebbe, dove nessuno dei suoi cari lo lascerebbe andare. Alla meta, dunque, si troverà completamente solo. Come un giocatore d’azzardo con le sue scommesse. Come uno scienziato geniale con la sua follia. Come il pescatore che vuole sentire i pesci nuotare intorno all’amo. Con una differenza: l’isolamento del giornalista di mafia che non si accontenta di osservare le cose da lontano solo in parte è volontario. Di solito viene decretato dai cronisti “normali”, da quelli che non superano il limite di guardia, e giudicano male chi avanza oltre il limite di sicurezza. Per il cronista impavido, alcuni cronisti normali provano angoscia e compassione. Altri, molti altri, provano rabbia, ostilità. Considerano queste incursioni nella terra insicura una critica ingiusta alla loro prudenza, alla loro saggezza, alla loro rassegnazione. Alcuni giudicano un buon affare tacitare il mostro dandogli in pasto una tenera fanciulla ogni tanto. Ragionano cioè come ragiona la gente mite e di buon senso in preda alla paura. Fra i cronisti normali che criticano il temerario spesso se ne nasconde qualcuno che sta proprio dalla parte della mafia. E’ la mela marcia del paniere colmo di buona frutta. E’ la pecora nera nata nel candido gregge. E’ il lupo camuffato d’agnello. Chi lo scopre teme di smascherarlo. Succede sempre così. Di solito, quando si manifesta una divisione fra cronisti non divide quelli amici della mafia da quelli nemici della mafia. Divide quelli che accettano il rischio alto da quelli che predicano e praticano la ragionevole prudenza. Queste divisioni non sono indolori. Provocano tensione, attrito, risentimento, inimicizia. In questo clima è difficile capire fino a che punto un cronista finisce nel mirino dei boss perché si è isolato volontariamente o perché è stato emarginato dal suo gruppo.
Osservo da oltre trent’anni queste dinamiche è credo di aver scoperto una sindrome particolare del cronista che si caccia nei guai per una notizia, per un’inchiesta, per un libro. L’ho battezzata la sindrome che acceca. Andrebbe riconosciuta come una malattia professionale. Può colpire chiunque, anche il cronista più mansueto, più prudente, più navigato, anche quello che di solito resta un passo indietro… Un cronista non può maneggiare a lungo notizie pesanti senza rischiare di esserne sconvolto. Non può guardare troppo a lungo l’orrore della violenza criminale, la spietatezza dei delitti e la meschinità di chi se ne serve senza essere contaminato. Non c’e’ niente da fare. O distoglie lo sguardo in tempo o viene il momento in cui, senza accorgersene, dimentica la prudenza, si trasforma in un temerario, in un ribelle.
Un mattino ti svegli e avverti un disgusto irrefrenabile. Senti crescere dentro di te un senso di ribellione che ti fa dire: no, questa non posso lasciarla correre. Ti ribelli senza averlo neppure deciso. Quando te ne rendi conto sei già dentro un campo minato.Sei già in lotta con il mostro. Non puoi ritirare la mossa. Non sei più quello di prima. Vedi i tuoi colleghi, rimasti dall’altra parte, e quasi non li riconosci. Loro ricambiano lo sguardo, scuotono la testa e dicono: non è più lui, è impazzito. Si sbagliano. Non sei impazzito. Ma non puoi convincerli. Non riescono a capirti, e la distanza fra te e loro è incolmabile. Succede così. Lo so dai racconti di chi c’è passato e ha avuto la fortuna di sopravvivere. Lo so per esserci passato anch’io.
Così, in Sicilia e in altre terre di mafia, uno dopo l’altro, tanti giornalisti sono entrati nel mirino. Così tanti, troppi giornalisti hanno perso la serenità, la possibilità di vivere una vita tranquilla. Così alcuni ci hanno rimesso la vita.

1. LA STRAGE DIMENTICATA – Otto giornalisti sono stati uccisi in Sicilia e un altro in Campania negli ultimi quaranta anni. Sono proprio tanti. E’ una strage che non ha eguali in nessun Paese occidentale. E dice solo in parte quanto sia difficile, pericoloso fare informazione nelle terre del Sud. Sono centinaia i giornalisti italiani intimiditi, minacciati, fatti oggetto di ritorsione, costretti a tacere. Queste storie terribili spesso non arrivano neppure alle pagine di cronaca.: “Nello stesso periodo in cui sono stato minacciato io – ha rivelato Lirio Abbate dalla tribuna del Congresso della FNSI di Castellaneta Marina, il 27 novembre 2007 -, sono stati minacciati anche altri: corrispondenti locali, giornalisti di tv locali minori che ci hanno rimesso le automobili, il portone di casa, la serenità familiare. Giornalisti spesso pagati tre euro a pezzo”. I nomi di queste vittime sono in gran parte sconosciuti: pochi hanno la forza per denunciare il sopruso, e quanti dovrebbero aiutarli a trovare questa forza – a cominciare dalle istituzioni pubbliche e dal loro sindacato – non hanno ancora trovato il modo migliore di aiutarli e sostenerli. Perciò queste vittime affrontano le minacce come un dramma personale, privato. Cioè come un dramma ancora più grande.
I due casi più noti e recenti, quello di Lirio Abbate, cronista dell’Ansa di Palermo, e quello del giornalista-scrittore Roberto Saviano, richiamano quelli precedenti, ma hanno in comune un elemento di novità: minacciati dalla criminalità organizzata e costretti a vivere sotto scorta, contrariamente a quel che avviene di solito, loro si sono ribellati all’imposizione di lasciar perdere, di lasciare il loro lavoro e le loro città. Hanno così denunciato, e nel modo più drammatico, alle istituzioni, all’opinione pubblica, alla categoria dei giornalisti e agli editori un grande problema ingiustamente trascurato. Hanno così imposto alle forze schierate contro la mafia una riflessione più puntuale su cosa significa fare informazione nelle terre in cui la criminalità organizzata ha una presenza diffusa sul territorio.

2. CATTIVA COSCIENZA – I termini del problema sono chiari: in tutti i luoghi i cui sono poteri radicati, ramificati, veri centri di interesse politico economico e finanziario, le mafie usano la violenz
a per proteggere i propri affari in ogni modo, innanzi tutto impedendo che certe notizie arrivino all’opinione pubblica. Dunque il problema consiste in una limitazione della libertà di stampa, nella violazione di un fondamentale diritto sancito dalla Costituzione. Dunque in Sicilia, in Calabria, in Campania vige di fatto una Costituzione materiale che tollera la limitazione della libertà di informazione, che tollera i giornalisti finché non mettono a rischio gli affari mafiosi. E’ significativa ancora la testimonianza di Lirio Abbate : “Se fai il tuo lavoro di cronista con prudenza, senza eccessi, con mediocrità, nessuno salterà su contro di te. Però un cronista che lavora così, non è accurato, non è onesto, perché non racconta quel che vede e sa”. In altre parole, finché un cronista riferisce passivamente le informazioni di polizia o di fonte giudiziaria una per una, non gli succede niente. Se invece ci ragiona su, fa collegamenti, descrive il quadro d’insieme, raccoglie informazioni sul campo, racconta quel che vede con i suoi occhi, allora dà fastidio, incontra ostacoli, riceve minacce.
Ecco perché il mestiere del cronista per alcuni è rischioso e per altri no: non perché alcuni cronisti sono imprudenti, ma perché a volte il confine della prudenza e il confine della coscienza civile e della deontologia professionale non coincidono. In questi casi, se un cronista si attiene alla normale prudenza per non correre rischi, non assolve fino in fondo i suoi doveri di giornalista, perché la sua professione comporta qualche rischio. Il mestiere del giornalista gode di rispetto, prestigio e considerazione proprio perché è tenuto ad assolvere una funzione sociale delicata e non sempre tranquilla. E’ così, ma è evidente che non tutti i giornalisti interpretano in questo modo il loro ruolo. Fra i giornalisti ci sono infatti mestieranti, incensatori, mercenari. Ma ci sono anche, per usare una felice espressione del presidente Ciampi, tanti giornalisti con la schiena dritta che si fanno continuamente i conti con il problema di fornire un’informazione libera e completa, anche quando è scomodo, rischioso, anche quando le notizie riguardano grossi interessi e personaggi potenti. Il problema si pone sempre e ovunque, e in ogni settore dell’attività giornalistica. Ma nel Sud d’Italia è più grave: qui il cronista deve fare i conti non solo con poteri forti, con prepotenti pronti a danneggiargli la carriera, o a dargli qualche spintone. Qui deve fare i conti anche con la criminalità organizzata, anche con mafiosi pronti a sparare. Inoltre nel Mezzogiorno, il controllo sociale è più debole, la rete dei poteri pubblici è più debole, il sistema dell’informazione è più debole. Perciò nel Mezzogiorno il problema di contemperare doveri e prudenza è più drammatico.
E’ un problema enorme. Eppure non è all’ordine del giorno. Non è nell’agenda politica. Le istituzioni non se ne occupano abbastanza. I giornali non ne parlano. L’opinione pubblica, che pure è sensibile a questi temi, non conosce i termini veri, drammatici della realtà italiana. Tant’è vero che si indigna e si commuove, giustamente, per l’assassinio della giornalista Anna Politikvoskaja, uccisa a Mosca per impedirle di pubblicare articoli-rivelazione sulla guerra in Cecenia, ne celebra l’anniversario, ma non conosce neppure i nomi dei giornalisti uccisi in Italia.
Si parla poco e niente delle vittime italiane. Questo silenzio rappresenta la cattiva coscienza dei giornalisti e di tutti coloro che si battono contro le mafie e contro i soprusi. Questa rimozione collettiva non aiuta ad affrontare il problema indicato, che è drammatico e di grande attualità.

3. EMOTIVITA’ ED ‘EMERGENZA – La Commissione Parlamentare Antimafia può contribuire a colmare il vuoto di attenzione e di conoscenza mettendo sotto la lente di ingrandimento il nodo mafia-informazione, documentando fatti e circostanze, a cominciare dalla storia delle vittime, tutta da scrivere. Questo lavoro, a mio avviso, rientra nei compiti del “Comitato Informazione Vittime” presieduto dall’on. Giuseppe Astore, neo-istituito in seno alla Commissione.
Finora dei giornalisti italiani minacciati o uccisi si è parlato solo quando non se n’è potuto fare a meno: nei momenti di emergenza, dopo le minacce a un giornalista, ai funerali di un cronista, durante le commemorazioni. Quindi sempre e soltanto con il tono dell’emozione, dell’indignazione e della retorica.
E’ invece necessario ragionarci a freddo e fare uno studio ad hoc. Ma, ripeto, prima occorre una seria raccolta dei dati; occorre inquadrare in termini chiari e oggettivi una casistica che è peculiare per dimensioni e caratteristiche. In questo senso si è fatto poco o nulla. Mi piace segnalare un’eccezione che conferma la regola: il bel libro di Luciano Mirone ”Gli insabbiati. Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza”, pubblicato da Castelvecchi nel 1999. Il volume è nato dalla testardaggine e dall’impegno individuale di un cronista free-lance che ha condotto in proprio e in solitudine un’inchiesta-ricostruzione accurata e approfondita, che invece di essere premiata è stata accolta con indifferenza e ingiustificata diffidenza. “Gli insabbiati” è un libro prezioso, poco conosciuto, quasi introvabile. Merita di essere aggiornato e ripubblicato. Merita di essere adottato come libro di testo nelle scuole di giornalismo. Merita di essere indicato come esempio dell’impegno civile che si può esprimere con la professione giornalistica.
La descrizione accurata, scientifica, completa della vicenda delle vittime dell’informazione sulla mafia è il primo passo da fare, la premessa per ogni passo successivo. C’è lavoro per tutti. Antimafia, università, centri studi, gruppi di ricerca, organismi di categoria dei giornalisti…
C’è un filo rosso che lega tutte queste storie: ognuno di questi giornalisti ha tentato di rompere la cappa della censura preventiva, che di solito è tacitamente accettata.
Lo sa bene ogni giornalista che lavora nelle “terre di mafia”; lo sa bene ogni cronista non rassegnato a lavorare come nei regimi totalitari, e cioè auto-censurandosi, ignorando una parte della realtà, producendo un’informazione mutilata e approvata. Ma di questo drammatico problema ogni cronista conosce solo la parte che lo coinvolge direttamente. Conosce solo il dramma personale che vive. Occorre raccogliere queste verità parziali e comporle in un quadro d’insieme aggiornato e completo. Solo così avremo la percezione del danno causato alla convivenza democratica da una informazione così assoggettata.

4. BUIO A MEZZOGIORNO – Dunque c’è una questione meridionale dell’informazione che si aggiunge e si somma alle altre questioni storiche del Mezzogiorno, e non è meno importante poiché, come abbiamo visto, pone una questione di libertà e di democrazia. Poiché, come ha osservato Don Luigi Ciotti, uno dei pochi che si è occupato seriamente del problema specifico: “l’informazione o è libera o semplicemente non è informazione: è propaganda, marketing, falsificazione, e bisogna ammettere che senza informazione non vi è né libertà né democrazia”.
Se nel Sud, come è evidente, l’informazione obbedisce a leggi di fatto, a leggi non scritte che la limitano, questa è una contraddizione stridente, e non riguarda solo il Mezzogiorno, ma tutto il Paese. Non si può fingere che non sia così. Bisogna ammetterlo, dire in cosa consiste questo divario, da cosa dipende. Bisogna chiedersi cosa si può fare, cosa possono fare i pubblici poteri, cosa deve fare la società civile per superare il gap. Bisogna riconoscere questo divario specifico, segnalarlo al mondo politico, alle forze sociali, agli esperti. E’ doveroso. Dopo si potrà aprire una discussione e cercare risposte e rimedi. Si potrà verificare se sono necessari o meno sostegni specifici e mirati a quella parte del giornalismo meridionale che lotta contro l’oscuramento delle notizie; se sono necessarie sanzioni più efficaci degli abusi commessi a danno di giornalist
i e dei crimini contro la libertà di informazione. Probabilmente si dovrà sollecitare anche per il sistema dell’informazione meridionale la solidarietà attiva del resto del Paese.

5. IL LAVORO DEI GIORNALISTI – La ricostruzione della storia dei giornalisti uccisi deve dirci, innanzi tutto, quali problemi di accertamento della verità restano aperti su ognuna di queste storie; quali aspetti restano da chiarire, quali ostacoli superare. E’ importante evidenziare le difficoltà, i rischi, gli ostacoli, le dinamiche con i quali ha dovuto fare i conti ciascuno di questi giornalisti. Da questo si potrà ricavare una mappa dei problemi, per individuare quelli ricorrenti e confrontarli con quelli attuali. Alcune questioni di carattere generale poste dall’insieme di queste vicende sono già evidenti. Occorre precisarle, verificarle, per cercare correttivi e rimedi partendo da una base oggettiva.

6. SE IL GIORNALISTA RESTA SOLO – Ho ragione di credere che i rischi che corre il cronista di mafia non siano cambiati molto da quando, nel 1985, in una relazione all’Università di Palermo, ho tracciato il quadro che propongo, qui di seguito, come punto di riferimento.
«I giornalisti che si occupano della mafia, proprio perché non sono giustizieri votati alla morte, né eroi, né semidei immortali, ma solo uomini in carne ed ossa, vivono una condizione umana e professionale molto difficile. Non hanno maggiori mezzi né maggiori garanzie dei giornalisti che fanno le cronache sportive o le cronache mondane. Per affrontare un compito particolarmente difficile e rischioso, un lavoro che a volte non è esagerato definire «di trincea», non possono neanche gloriarsi di particolari riconosci-menti. Anzi, quello che scrivono è sempre guardato con sospetto, soppesato con il bilancino. E quando (molto, troppo frequente-mente) finiscono sotto inchiesta per ciò che hanno scritto, ci sono poche firme in calce agli appelli e agli attestati di solidarietà. I giornalisti che si sono occupati di terrorismo negli anni di piombo, delle trame eversive, hanno corso forse gli stessi rischi, hanno avuto le loro vittime, ma nel complesso hanno avuto più ampie garanzie: più sostegno per la loro funzione di impegno civile, più solidarietà e simpatia pubblica, più scorte di polizia, più assicurazioni sulla vita, più incentivi salariali, più frequenti rotazioni nelle mansioni.
Per i cronisti di mafia, questi problemi non sono mai stati affrontati né in sede istituzionale, né in sede editoriale, né in sede sindacale. Ognuno perciò scrive e rischia personalmente. La contraddittoria legislazione sul segreto professionale dei giornalisti sulle fonti di informazione (riconosciuto dalla legge sulla stampa ma negato dal codice penale) trasforma sempre più spesso il cronista in imputato».

7. GIORNALISMO DI SQUADRA – «Nei piccoli giornali le difficoltà del cronista di mafia sono ancora maggiori. Le strutture redazionali e gli organici sono di dimensioni ridotte e viene meno pure la possibilità di contenere i rischi mobilitando più giornalisti, una squadra di cronisti, contemporaneamente sul fronte dei fatti di mafia. E questa dovrebbe essere la precauzione più elementare, È la principale che viene adottata dalle forze di polizia, dai magistrati».

8. LA SINDROME CHE ACCECA – «In queste condizioni, il giornalista minacciato dalla mafia – e alzi la mano chi negli ultimi anni, lavorando a Palermo o a Napoli, direttamente o indirettamente non ha ricevuto gravi avvertimenti – vive una tragedia personale. Si sente perfino colpevolizzato perché c’è sempre qualcuno pronto a dimostrare che è stato lui a sbagliare una mossa; c’è sempre qualcuno pronto a minimizzare senza motivo le possibili conseguenze. Il giornalista minacciato è profondamente solo quando deve scegliere se affrontare il rischio eroico, o fuggire, o imboccare una ragionevole terza via che consiste nell’imporsi una forma di auto-censura che ufficialmente viene classificata “prudenza professionale”. In questi anni moltissimi, silenziosamente, hanno imboccato questa terza via, che produce subito profondi mutamenti. Alcuni centri di percezione sensoriale si atrofizzano: sfuggono all’attenzione perfino fatti che dovrebbero balzare agli occhi. Si aspetta che sia qualcun altro a scrivere la notizia per primo. Oppure scrivendo si alterano alcuni elementi dell’informazione per attenuarne la pericolosità. Si giunge talvolta perfino a storpiare i nomi dei protagonisti. È una sindrome strana, che meriterebbe di essere meglio analizzata».
Fin qui la mia relazione del 1985.

9. LA SINDROME DELLA SFIDA – Osservo da trentacinque anni queste dinamiche e ho scoperto anche un’altra sindrome ricorrente di segno opposto a quella che acceca: la sindrome della sfida, quella che spinge il cronista a sfidare il pericolo, a ignorare la prudenza, la cautela, le precauzioni che ha adottato fino a un attimo prima. A lungo andare, finisce per esserne colpito anche il giornalista più cauto. Chi si occupa da vicino e con continuità di questioni così pesanti, e dà importanza alla funzione sociale del mestiere di informare l’opinione pubblica, alla lunga non riesce più a trincerarsi dietro il cinismo professionale che lo protegge come una corazza. Finisce per identificarsi nelle vittime e, pur essendo consapevole dei rischi che corre, decide di non lasciare nella penna una notizia di particolare rilevanza di cui è entrato in possesso.
Non so cosa si possa fare per proteggere il cronista da queste sindromi. Certamente bisogna studiarle, prevenirle, curarle. Finché è possibile si deve prevenire il coinvolgimento eccessivo. Il cronista di mafia non dovrebbe essere chiamato a occuparsi solo di notizie sulla mafia. Dovrebbe essere inserito in una squadra professionale, affiatata, incaricata di gestire in comune le notizie più delicate. Ci sono vari modi per attenuare il rischio a cui è esposto un cronista di mafia. Ad esempio, si possono spersonalizzare al massimo certe notizie, pubblicandole senza firma, affiancando più di una firma, usando pseudonimi, aggiungendo alle cronache commenti ed editoriali delle firme più autorevoli. Espedienti in parte già utilizzati, ma non abbastanza. Per queste cose dovrebbero esserci dei protocolli, delle procedure standardizzate. Affido la ricerca di soluzioni alla sensibilità e all’esperienza dei direttori e dei responsabili delle redazioni.

10. CHI GIUDICA CHI – Un cronista colpito da una seria minaccia corre pericoli per la sua incolumità personale, e i suoi guai non finiscono lì. Rischio di non poter proseguire la carriera nelle stesse mansioni e nella stessa città. E’ triste dirlo, ma a volte queste cose sono irrimediabilmente compromesse. Spesso entrano in crisi i rapporti con i colleghi. Quest’ultimo aspetto non è secondario. Voglio segnalare una dinamica ricorrente.
Di solito, come abbiamo visto, i colleghi prudenti rimproverano la fuga in avanti al cronista che si è ribellato alla regola del quieto vivere. Più o meno apertamente, lo accusano di aver violato un patto tacito, e di averlo violato per farsi bello a loro spese. Nascono incomprensioni, gelosie, rivalse, scambi di accuse. Tensioni che impediscono di tributare di slancio una solidarietà piena e incondizionata al cronista in pericolo. Il cronista minacciato dovrà fare i conti con queste complicazioni, a volte insormontabili, quando l’Ordine dei giornalisti, chiamato a esaminare il caso, esiterà, come spesso accade, fra il giudizio salomonico e la colpevolizzazione dell’ “imprudente”.
Si impone una attenta riflessione. A mio avviso, bisogna riconoscere la specialità di questa casistica, definire uno status più preciso del giornalista minacciato, stabilire criteri di valutazione più idonei del suo comportamento. Bisogna tenere conto delle tensioni connaturate e fare tesoro delle esperienze precedenti. Per giudicare questi casi, gli organismi di tutela deontologica dovrebbero impiegare organi di giudizio speciale, o quantomeno rafforzati con la partecipazione di competenze specifiche.

11 – LE NOT
IZIE E CHI C’E’ DIETRO – Ci sono mille prove, storiche e attuali, della ipersensibilità dei boss mafiosi per le notizie che possono danneggiarli. Dal tritolo fatto esplodere nel 1958 nella tipografia del quotidiano L’Ora di Palermo, al tritolo minacciato nel 2007 contro Lirio Abbate il problema è sempre lo stesso. Ma forse la soglia della suscettibilità è cambiata. Credo si sia abbassata. E ciò ha forse influito sulla discutibile scelta – certamente autonoma – delle redazioni dei giornali italiani di alzare la soglia delle notizie, cioè di scartare notizie che fino a qualche anno fa erano ritenute degne di essere pubblicate.
Ai giorni nostri, tranne rari casi, non si pubblicano informazioni su comportamenti discutibili degli uomini politici o dei rappresentanti delle istituzioni, né sulle indagini in cui risultano coinvolti; come minimo, bisogna avere come pezze d’appoggio degli atti giudiziari, e tante volte neppure le carte giudiziarie sono sufficienti per superare la soglia. Molte notizie restano inedite. Non leggono come una volta le carte processuali; non si scava intorno ai fatti, Non si dà corso e spazio sui giornali alle denunce dei cittadini. Molti problemi sociali che i cittadini-lettori vivono non raggiungono le pagine di cronaca.
Sulle pagine dei giornali e in televisione trovano sempre meno spazio le inchieste di una volta, quelle che si caratterizzavano per la raccolta di informazioni con il metodo dell’inchiesta sul campo, con la descrizione di dinamiche in atto, con la segnalazione di indizi dell’evoluzione in corso.
A proposito delle notizie inedite, mi sembra utile segnalare un aspetto che riguarda le interrogazioni e le interpellanze parlamentari. Fino a qualche anno fa erano una miniera di notizie. Riecheggiavano e alimentavano le notizie che faticavano ad arrivare sulle pagine dei giornali e ad imporsi all’attenzione del mondo politico e delle istituzioni. Da qualche anno questa utile attività di sindacato ispettivo dei parlamentari appare molto ridotta.
La tendenza a porre più in alto la soglia della notizia, di alzare l’asticella che le notizie devono saltare per finire sul giornale, ha determinato un oscuramento informativo più esteso. Il fenomeno è palese e dà spesso adito a generiche lamentazioni e a un altrettanto generico rimpianto del giornalismo d’altri tempi. E’ una questione da approfondire. Bisogna descriverla in termini oggettivi, per poterne parlare senza confondere cause ed effetti. Non si può spiegare, come fanno spesso i giornalisti, l’innalzamento della soglia con il garantismo e con il rispetto della privacy. Quando si ragiona così, si propone un malinteso senso del garantismo e si fa una discutibile interpretazione del diritto alla privacy. Io credo che certe scelte dei giornali siano rivelatrici di un processo di involuzione della nostra società e di un decadimento della professione giornalistica. Credo che nel villaggio globale spiato dai satelliti e documentato ossessivamente da potenti sistemi informativi interconnessi operanti 24 ore al giorno, nel mondo dei quotidiani full color da 60 pagine più supplemento, queste scelte siano indicative di un mutamento politico-culturale che ha reso invisibili intere categorie di informazioni, a cominciare da quelle che riguardano il mondo del lavoro, le denunce sociali di torti e ingiustizie, le disfunzioni di servizi pubblici. Il paradigma di tutto ciò è l’oscuramento delle notizie sugli incidenti mortali sul lavoro, che perdura nonostante le morti bianche si ripetano alla cadenza di due-tre morti al giorno e nonostante i ripetuti richiami del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e dei presidenti delle Camere, Marini e Bertinotti.
Limitandoci al tema dell’informazione sulla mafia, per dire che il più accentuato oscuramento che si nota è tutt’altro che casuale: innanzitutto è la conseguenza di una più accentuata aggressività mafiosa. Il salto di qualità più evidente risale al 1977, all’assassinio del colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo nella piazza del borgo di Ficuzza. Fino allora la mafia aveva osservato una sorta di non belligeranza nei confronti di chi era impegnato a contrastarla per mestiere. Il delitto Russo chiude quell’epoca. Di lì a poco l’escalation riguarderà anche i giornalisti e i vertici politici. L’informazione è entrata pienamente nel mirino quando Cosa Nostra ha assunto un profilo economico-finanziario più alto.

12. GIORNALI, AGENZIE; LIBRI – Negli anni si è esteso il genere di media che i mafiosi tengono sotto mira: prima erano solo i giornali, poi anche le radio e le tv. Adesso anche i libri e le agenzie di stampa.
I libri danno fastidio probabilmente perché le inchieste e le ricostruzioni d’insieme che ormai non trovano spazio sui quotidiani e in tv, finiscono in libreria. E’ nato un nuovo genere di libro-inchiesta giornalistica, che ha un vasto pubblico. Basta dire che “Gomorra” marcia verso il milione di copie vendute. In questi libri, si offre al lettore una ricomposizione unitaria dei brandelli di notizie estemporanee che appaiono sui giornali con l’aggiunta di quei brani di atti giudiziari che gli altri media non pubblicano.
Le agenzie di stampa sono un bersaglio meno recente di quanto si possa credere. Ma oggi sono più bersagliate, probabilmente perché è divenuto più incisivo il loro ruolo nella scelta dei contenuti giornalistici e nella definizione dei menabò dei quotidiani e dei notiziari radiotelevisivi. Lo hanno capito anche i mafiosi. Ultimamente abbiamo scoperto che i capimafia seguono con tempestività le notizie d’agenzia, i dispacci diretti ad altri giornalisti e non al grande pubblico. I boss riescono a seguire le agenzie anche dal carcere, anche quando sono sottoposti al regime di isolamento speciale cosiddetto 41 bis. Sarebbe interessante sapere come fanno.

13. IL RISCHIO DI ESSERE USATI – Come dicevamo prima, ci sono notizie sulla mafia che non danno fastidio alla mafia. L’esperienza insegna che al cronista non accade nulla finché si limita a fare un bollettino acritico dell’attività degli investigatori e degli inquirenti, finché riferisce il punto di vista di giudici e poliziotti, finché ne anticipa le mosse, o finché racconta le atrocità di un delitto mafioso descrivendo tutti i particolari, anche i più impressionanti. Questo tipo di notizie non dà fastidio alla mafia. Anzi è gradito. E’ utile anche ai mafiosi apprendere dal giornale quali successi hanno conseguito gli inquirenti e quali mosse intendono fare. E’ utile a informare soprattutto chi vive in clandestinità.
Ai mafiosi torna utile che i giornali raccontino i particolari raccapriccianti di una strage, spieghino che i boss non si fanno scrupolo di sciogliere nell’acido i corpi delle loro vittime, o riferiscano con quanto cinismo sono capaci di ordinare un omicidio.
Fornire particolari atroci sulle imprese delittuose della mafia alimenta la pietà per le vittime. Ma al tempo stesso propaga, diffonde e amplifica l’effetto terroristico, di paura e di intimidazione del delitto; propaga, al di là delle intenzioni, la potenza di fuoco della cosca. E’ lo stesso problema che, su più vasta scala, si ha di fronte alle rivendicazioni di attentati del terrorismo politico o di matrice internazionale, davanti ai messaggi di Bin Laden o ai videoclip dei tagliatori di teste iracheni.
E’ impossibile impedire del tutto la strumentalizzazione dei media da parte dei terroristi. L’esperienza però insegna che si può contenerla e limitarla. Abbiamo imparato a nostre spese e a caro prezzo quale genere di informazione sia funzionale alle strategie terroristiche, e ormai da tempo le redazioni adottano precise regole per limitare l’amplificazione mediatica degli attentati.
Per la mafia si finge che il problema non esista. E’ un’altro punto su cui riflettere, come ha chiesto anche il Procuratore nazionale Antimafia Pietro Grasso sottolineando il vuoto di analisi e di attenzione su questi temi e indicando in queste disattenzioni un limite del giornalismo odierno.

12. L’ORA, UN GIORNALE INDIPENDENTE
– La mafia, dice Grasso, è capace di “strumentalizzare l’informazione e di condizionare la stampa”, sa usare a proprio vantaggio i mezzi di informazione, ad esempio ”per avvisare chi si deve difendere da un’indagine o deve fare sparire delle prove”. Oggi il giornalismo – aggiunge il procuratore – non fa indagini in proprio, come faceva ad esempio il quotidiano L’Ora, che “era un quotidiano veramente indipendente”, oggi i giornalisti si limitano a trarre le informazioni dagli atti giudiziari.
Riflettiamo su quest’ultima considerazione. Certamente L’Ora, il quotidiano del pomeriggio di Palermo che ha cessato le pubblicazioni nel 1994, per oltre vent’anni, come ha raccontato in un bel libro il suo direttore storico Vitorio Nisticò, ha fatto una informazione “indipendente”, attiva, critica, investigativa, un giornalismo di inchiesta sul campo di alto livello. Quel giornale “indipendente” era, notoriamente, di proprietà del Partito Comunista Italiano. Quando faceva informazione sulla mafia, era “indipendente”, oltre che per l’autonomia e l’indipendenza di giudizio del suo direttore storico, proprio grazie al suo assetto proprietario che lo rendeva impermeabile a certe pressioni, estraneo alle logiche opportunistiche e di scambio proprie dei gruppi imprenditoriali pragmatici e delle aziende editoriali dichiaratamente indipendenti, di fatto politicamente vicine agli ambienti di governo. Conferma questa tesi l’effimera vicenda del mensile “I siciliani” fondato, diretto ed edito in proprio da Pippo Fava, e poi da Claudio Fava: per fare a Catania una informazione indipendente sul sistema di potere locale, Fava dovette creare una struttura editoriale in proprio, e stampare il periodico fuori dalla Sicilia.

13. GIORNALI E GIORNALISTI – Dunque, se quel giornalismo d’inchiesta che faceva il giornale L’Ora non si fa più, non è perché non ci sono più i giornalisti di una volta, ma perché non ci sono più editori e assetti proprietari “indipendenti” come c’erano una volta. Il procuratore Grasso mette in evidenza proprio questo aspetto. “Oggi forse l’editoria – dice – è nelle mani di potentati che non consentono l’indipendenza. Non mancano i giornalisti capaci e coraggiosi. Il problema è a monte”. Ma ci si può contentare di saperlo?

14. LA DISATTENZIONE DEI QUOTIDIANI NAZIONALI – Inoltre il procuratore Grasso giustamente ha lamentato l’accresciuto disinteresse dei giornali a diffusione nazionale per le notizie sulla mafia. A suo avviso non si tratta di ”disattenzione, ma di una precisa strategia dell’organizzazione mafiosa”, interessata a confinare queste notizie nelle pagine di cronaca dei quotidiani locali. Sarebbe utile chiedere al Procuratore e ad altri soggetti elementi più precisi su questo fenomeno, perché questo, in effetti, è l’altro lato del problema.
Non sfugge a nessuno che il Sud sia oggi meno osservato, indagato, descritto di quanto non fosse negli anni del Dopoguerra. Da tempo, la cultura nazionale presta sempre meno interesse alle vicende del Mezzogiorno. Giornali, giornalisti, editori, scrittori, cineasti sono oggi più conformisti, più retorici, più rispettosi del potere e dell’informazione ufficiale. Credo che nessuna fiction sugli eroi sconfitti della lotta alla mafia abbia raggiunto il potenziale di denuncia sociale di film di Francesco Rosi come “Le mani sulla città” o “Salvatore Giuliano”. O dei dubbi volterriani che Leonardo Sciascia scaricava sulla cattiva coscienza politica nazionale. Il fatto segnalato da Francesco La Licata (La Stampa, 8 dicembre 2007, pag 1) che i dvd pirata della fiction su Totò Riina siano andati a ruba nei quartieri di Palermo ad alta densità mafiosa, dovrebbe dirci qualcosa.
Anche i giornali meno conformisti del Mezzogiorno si sono indeboliti e alcuni hanno cessato le pubblicazioni, e non c’è spazio qui per dire quanto essi influissero sulla formazione della coscienza civile di tutto il Paese. Limitiamoci a dire che sui giornali a diffusione nazionale – tutti localizzati nel centro-nord – si è ridotto il flusso di notizie originato dal Mezzogiorno. La recente pubblicazione di un’inchiesta a puntate sui grandi affari della mafia sul supplemento economia del Corriere della Sera rappresenta una significativa, apprezzabile novità.

15. UN GIORNALE DI TUTTO IL SUD – In Italia, ci sono vari bacini di informazione chiusi come compartimenti stagno, e questo favorisce strategie di oscuramento di intere categorie di notizie. Il bacino meridionale appare più chiuso che mai, ed è il riflesso di una crisi sempre più accentuata della cultura meridionale. Crisi che si manifesta con la debolezza, l’afonia degli intellettuali meridionali, la loro ridotta incidenza sulla scena nazionale, la loro incapacità – o rinuncia – a rappresentare a tutto tondo i caratteri nuovi e drammatici della questione storica del sottosviluppo, della criminalità organizzata e della marginalità. Da tempo i grandi drammi del Mezzogiorno non trovano più i grandi attori, gli interpreti capaci di imporli sulla scena nazionale. Perciò questi drammi vivono e muoiono a livello locale: dove mancano i mezzi e la forza per risolverli. Il dramma del terrorismo mafioso di Palermo è solo il dramma dei cittadini di Palermo. Il dramma della camorra napoletana è solo dei Napoletani. Il dramma della Calabria, schiacciata fra sottosviluppo e aggressività criminale, è solo dei calabresi.
Ci vorrebbe un giornale di tutto il Mezzogiorno: un crogiuolo nel quale mescolare, giorno per giorno, gli avvenimenti, i sogni, le intelligenze, le speranze e i dolori di Napoli, di Palermo, di Cagliari con quelli del più sperduto comune del Sud.
Finché il Sud non disporrà di un simile strumento di comunicazione non potrà esprimere pienamente la sua identità culturale e sociale, quella vera, intendo, ricca di sfumature, diversa dalla piatta, diffamante oleografia caricaturale imperante. L’unica immagine d’insieme del Sud è quella approssimativa mediata dalla stampa nazionale, quella che giunge nel Sud proiettata dalle redazioni e dalle case editrici di Roma, Milano, Torino.

16. LE NOTIZIE CHE UCCIDONO – Abbiamo visto le notizie che la mafia considera neutre o addirittura funzionali. Parliamo ora delle notizie che, invece, la criminalità considera sgradite, ostili, e alle quali reagisce. E’ necessario riconoscerle, classificarle e trattarle di conseguenza. Sono le notizie in grado di danneggiare seriamente gli oscuri affari che si svolgono al confine fra lecito e illecito, fra imprese, politica e criminalità.
Apparentemente sono notizie come tutte le altre, ma sono notizie che uccidono. Maneggiarle è rischioso per i cronisti e per i loro giornali. Il cronista incontra una linea di confine tracciata dai criminali. Una linea invisibile, nota a tutti, segna il limite oltre il quale le cosche non ammettono l’intromissione dei giornalisti. Chi la oltrepassa si avventura in un campo minato e rischia la vita a ogni passo.
Secondo il giudizio comune, quando un giornalista si avventura oltre questo limite di guardia, lo fa perché è impazzito. Non è vero. Abbiamo visto la sindrome che lo porta a fare questo passo, e la storia di ognuno dei cronisti assassinati da mafie e camorre dimostra che ognuno di loro ha fatto consapevolmente e nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali il passo che lo ha fatto entrare nella zona a rischio.

17. DI QUA E DI LA’ DAL LIMITE DI GUARDIA – Resta il problema di chi non è disposto a correre un rischio così alto. Come giudicarlo? Certamente non si può metterlo sotto accusa. Sarebbe ingiusto e sbagliato. A nessun giornalista si può chiedere di rischiare la vita per una notizia. Ma la riflessione non può fermarsi qui.
Molte notizie restano inedite perché i cronisti, comprensibilmente, non osano sfidare la guardia armata che impone la censura. Così viene oscurata una parte della realtà e di solito anche la denuncia di una censura tanto grave e diffusa resta inedita. Voglio soffermarmi su questo aspetto, perché a mio avviso sta qui il punto di attacco per rovesciare
la situazione. Chiediamoci se sia giustificato mantenere questo pietoso silenzio. Chiediamoci, in via di principio: un giornalista che non può sviluppare una notizia, un’inchiesta perché intimidito, minacciato, censurato, può sempre e in ogni caso limitarsi a subire in silenzio.
Io credo che, individualmente, direttamente, o attraverso gli organi rappresentativi della sua categoria, dovrebbe denunciare il sopruso che gli impedisce la pubblicazione di informazioni che per deontologia professionale è chiamato a cercare, a raccogliere, a pubblicare.
I giornalisti non possono continuare a subire in silenzio e con rassegnazione costrizioni così gravi e così frequenti. Non possono fingere che il problema non esista. Devono cominciare a parlarne. Devono cercare il modo di risolverlo. Devono invocare il sostegno delle forze sociali e delle istituzioni.

18. ROMPERE IL TABU’ – Gli organi rappresentativi della categoria dei giornalisti possono dare un grande contributo per diffondere questa coscienza. I tempi sono maturi, come si è visto nel dibattito al recente XXV Congresso nazionale della FNSI, dove il tema è entrato nel dibattito e l’impegno è stato espresso nei documenti finali. Il primo passo da fare è proprio questo: parlare apertamente dello stato di costrizione in cui si svolge l’attività giornalistica in certe aree e in particolare su certe tematiche. Bisogna trovare il modo di rompere il tabù che finora ha fatto tacere, per paura, per vergogna, per rassegnazione. Bisogna denunciare il problema generale nei termini in cui si presenta: come il problema deontologico e di coscienza di chi ha scelto la professione di informare l’opinione pubblica e non può farlo perché si trova a lavorare in un clima di violenza.

19. DIVERSI TIPI DI SILENZIO – Bisogna parlarne. E bisogna fare delle utili distinzioni. Dire che fa differenza se un giornalista omette una notizia a causa di un effettivo stato di costrizione o se invece tace per acquiescenza, per quieto vivere, o peggio ancora per convenienza personale. Queste distinzioni sono fondamentali. Non è ammissibile tacere una notizia quando non ci si trova in un effettivo stato di costrizione e di accertato pericolo, quando si tratta solo di evitare possibili complicazioni, o di resistere a una pressione o a una sollecitazione indebita: è dovere irrinunciabile del giornalista informare l’opinione pubblica, riferire i fatti di rilevante interesse generale senza omissioni, senza partigianeria, senza favoritismi; è suo dovere cercare attivamente gli elementi di informazione ed esporli in modo da far comprendere il senso di ciò che accade, i risvolti degli avvenimenti; è suo dovere impegnarsi perché le notizie siano pubblicate.
Quando il cronista non può ottemperare a questo dovere per motivi di forza maggiore, per costrizioni o minacce, è tenuto – quanto meno – a denunciare il suo stato di costrizione. E’ tenuto a dire ai suoi lettori che qualcuno gli lega le mani. Se la notizia o la ricostruzione che pubblica è parziale o incompleta, ugualmente, è tenuto a dirlo.
Mi rendo conto che, per quanto i principi generali siano chiari, la prassi è un’altra cosa, e certi rischi sono molto concreti. Credo che in questo campo i giornalisti dovrebbero impegnarsi a definire regole di comportamento codificate. Credo, inoltre, che abbiano il dovere di proporre un piano di interventi che consenta di prevenire i rischi senza pagare il prezzo che adesso, in molti casi, si è costretti a pagare: quello di subire la pretesa dei boss. La censura.

20. IL RUOLO DELL’EDITORIA – La questione di cui ci occupiamo riguarda in primis i giornalisti, ma chiama in causa la politica e anche la categoria degli editori. Il sistema dell’informazione, dagli Anni Sessanta ad oggi, innegabilmente, si è evoluto. I più importanti media hanno notevolmente potenziato i loro mezzi tecnici e le loro strutture; sono nate centinaia di emittenti radio-televisive a diffusione locale. Ma parallelamente al progressivo emergere dei potentati mafiosi a livello imprenditoriale e finanziario, per certi versi il pluralismo dell’informazione nel Mezzogiorno si è ridotto.
Nel mondo della carta stampata sono scomparse decine di testate, alcune storiche e di riconosciuto prestigio nel campo dell’informazione sulla criminalità organizzata, come il citato giornale L’Ora; altre di vita breve, ma di analoga incisività in questo campo, come “I Siciliani”; allo stesso tempo si sono realizzate importanti concentrazioni editoriali in Sicilia, in Campania e in Calabria. Nello stesso arco di tempo sono stati stretti patti editoriali che fissano zone di influenza dei vari quotidiani e rigide limitazioni territoriali della loro diffusione. Mi limito a citare, in via esemplificativa, solo il più noto di questi patti: quello che esclude la vendita dell’edizione siciliana di “Repubblica” nelle edicole della Sicilia Orientale, in base al quale i lettori di questa area non possono leggere le pagine di cronaca realizzate dalla redazione di Palermo. E da verificare se questo patto e altri patti non siano in contrasto con le leggi che tutelano la concorrenza, con il diritto dei lettori di avere accesso a un’informazione pluralistica, con le definizioni di posizione dominante a livello locale, con i requisiti per l’accesso ai contributi della legge dell’editoria.
Quel che appare chiaro è che in seguito alla recente evoluzione del panorama editoriale, in varie province del Sud, dove prima i lettori potevano scegliere più di una testata con pagine di cronaca locale, il giornalismo locale è ora rappresentato da una sola testata, da una sola voce che parla ai lettori senza contraddittorio, a volte da una posizione dominante.

21. DUE PROPOSTE – In questi anni l’insieme dei media più impegnati nella battaglia civile per il contrasto al predominio mafioso si è indebolito e invece i media più conformisti si sono rafforzati. Sarebbe utile ricostruire come ciò sia avvenuto; è legittimo chiedersi quanto abbiano pesato e pesino fattori e ragioni estranee alla libera concorrenza delle imprese nel mercato.
Una delle difficoltà maggiori dell’editoria minore nel Mezzogiorno è rappresentata dai costi di stampa. Alcune testate hanno cessato le pubblicazioni a causa dell’elevato costo di gestione di una tipografia in proprio o dei costi di stampa presso terzi. E’, ad esempio, la storia dell’Ora. Per ridurre i costi e continuare le pubblicazioni, il quotidiano del pomeriggio di Palermo aveva progettato un centro stampa in comune con l’editore della Repubblica. Dopo positivi abboccamenti iniziali, l’editore di Repubblica decise invece di realizzare il suo centro stampa siciliano a Catania insieme con l’editore della “Sicilia”. Questa scelta segnò le sorti del quotidiano del pomeriggio di Palermo. Analoghe traversie hanno avuto altre testate. Lo stesso problema ostacola tuttora la nascita di nuove iniziative editoriali.
E’ dunque da valutare se nell’ambito delle iniziative a carattere sociale e a sostegno della imprenditoria del Mezzogiorno, non sia il caso di realizzare nel Sud una o più infrastrutture editoriali di base quale un grande centro stampa consortile, del quale potrebbero servirsi varie testate con un’ampia ripartizione dei costi.
Un’altra questione riguarda i finanziamenti pubblici all’editoria. E’ noto che i media si finanziano sempre meno attraverso vendite e abbonamenti, e sempre più attraverso erogazioni pubbliche, entrate pubblicitarie, convenzioni con enti pubblici e sovvenzioni di privati. Vendite e abbonamenti in alcuni casi coprono appena un quinto del fatturato. Sarebbe utile un quadro dettagliato dell’apporto delle contribuzioni pubbliche e private ai giornali del Mezzogiorno. E’ inoltre da valutare se nel Mezzogiorno l’erogazione del finanziamento pubblico all’editoria, una parte di esso, o una parte aggiuntiva possa essere legato in modo vincolante al rigido rispetto di standard di concorrenza, alla completezza dell’informazione, alla presenza di adeguati spazi di informazione sulle vicende collegate alla lotta alla criminalità organizzat
a.

22. QUANTO INCIDE L’INFORMAZIONE – L’informazione può incidere molto sulla lotta alla mafia, come ha ricordato recentemente anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, richiamando il dovere civile dei giornalisti di non essere dei semplici passacarte. Celebrando al Quirinale la Giornata dell’informazione , Napolitano ha richiamato “in modo particolare il ruolo che stampa e televisione possono svolgere contro la criminalità organizzata, un ruolo di primo piano, un impegno netto, che va svolto con coraggio e continuità, un ruolo che fa onore alla professione giornalistica svolta come missione”.
E’ un altro punto su cui è utile soffermare l’attenzione. La mafia e l’informazione sono in definitiva due entità antitetiche, poiché la criminalità organizzata può prosperare solo nel buio informativo, in una penombra che lascia scorgere solo notizie ininfluenti, funzionali o addomesticate. Ecco perché quando si parla dei giornali, dei giornalisti che si occupano di criminalità organizzata si parla di uno dei fronti sui quali si svolge la lotta alla mafia. Uno dei fronti decisivi, e forse il meno noto, il meno esplorato, il meno coltivato.
Le mafie patiscono l’informazione indipendente, attenta, critica, analitica, continuativa. I boss, portati alla ribalta, in piena luce, perdono forza e consenso. Perdono l’aureola di ribelli romantici, di eroi leggendari, di geni della sottigliezza. Appaiono per quel che sono: criminali cinici ed efferati, persone modeste in grado di prevalere e di imporsi solo con la violenza. Si è visto dopo la loro cattura che personaggi erano Liggio, Riina, Provenzano e altri capimafia. Si è visto oltreoceano nei processi ai più noti boss italo-americani.
Chiediamoci dunque: cosa sarebbe la mafia, cosa sarebbero la camorra, la ‘ndrangheta e le consimili consorterie, se fossero spogliate dell’alone di mistero e di segretezza che impedisce di far conoscere le loro meschinità, gli orrori di cui sono responsabili, se fossero pubblicate le notizie poco edificanti sul loro conto che pur sono percepibile nell’ambiente? Cosa sarebbero gli inafferrabili boss (che comunque, prima o poi, vengono catturati) senza il silenzio stampa e l’alone di protezione terroristica che circonda le loro tristi imprese? Quale seguito avrebbe Cosa Nostra se il mito dell’invincibilità di cui si fa forte fosse sottoposto allo screening di un’informazione accurata? Insomma, cosa sarebbero le mafie se fossero raccontate sui giornali, in televisione per quel che sono veramente?
Credo che sotto i riflettori la ‘Invencibile Armada’ mostrerebbe numerose falle, apparirebbe mostruosa, perderebbe forza e fascino, non potrebbe realizzare molti loschi affari. Vacillerebbe il dominio violento su intere parti del territorio nazionale.
E’ anche una questione di mezzi. Se per l’informazione sulla mafia si mettesse in campo la stessa attenzione, la stessa curiosità, la stessa profusione di energie e di mezzi che si usa per raccontare il campionato di calcio, in poco tempo la criminalità organizzata cesserebbe di essere un potere condizionante, ramificato, temibile, asfissiante per la vita democratica e per le attività economiche. I mafiosi perderebbe il “consenso sociale” che li fa muovere agili e invisibili come predatori incontrastati.

23. C’ERA UNA VOLTA FALCONE – Ma questo è lontano dall’accadere. Credo che l’armata dell’informazione critica, accurata, continuativa sulle mafie, anziché essere potenziata, sia stata indebolita. Sguarnita. Privata di mezzi e di sostegni.
L’apparato giornalistico che negli anni Ottanta-Novanta consentì a Chinnici, Falcone, Borsellino di sferrare i più formidabili colpi a Cosa Nostra con il sostegno dell’opinione pubblica, è in disarmo. Del Palazzo di Giustizia di Palermo si parla ormai solo per raccontarne i veleni e per dire che Falcone era un’altra cosa. Né si può dimenticare che nella stagione d’oro della lotta alla mafia, soprattutto dopo l’eliminazione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, un notevole contributo giunse dai giornali del Nord, che cominciarono a seguire con continuità, con propri inviati, con specialisti, le vicende di mafia e camorra.

24. LE NOTIZIE E IL TETANO – Si è fatto molto per fare comprendere che la mafia è la negazione del mercato, che è un cancro che colpisce la libera attività economica. Se ne ha ormai una chiara percezione, e si studiano e si adottano misure per proteggere il mercato dall’inquinamento mafioso.
Manca invece la consapevolezza che la mafia sia la negazione della vita democratica e dell’informazione libera, critica, accurata. Non si fa abbastanza per fare comprendere il vero contributo che un’informazione libera, continuativa può dare alla lotta contro la mafia. Non si fa abbastanza per far comprendere che l’informazione critica è un liquido benefico che irrora la società civile, che è la linfa vitale della democrazia partecipata, ed è allo stesso tempo il veleno micidiale che può annientare la diffusione della criminalità mafiosa. L’informazione libera ha un duplice effetto positivo: come l’ossigeno, che vivifica il corpo umano e allo stesso tempo distrugge microrganismi anaerobici letali per il corpo umano, come il tetano.
Questo è il nesso. E allora bisogna impegnarsi a sviluppare più ossigeno informativo nel corpo della società meridionale, per impedire che si sviluppi il “tetano”.

* tratto da Problemi dell’Informazione

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