Quando lunedì 5 novembre ho visto Roberto Saviano in prima serata su Rai 3 parlare nella trasmissione di Fabio Fazio dei braccianti immigrati di Nardò e degli affari criminali delle mafie in agricoltura, ho subito detto :“finalmente, era ora”. Quando poi ho visto Yvan Sagnet (nella foto), lo studente-bracciante del Camerun che un anno fa guidò la rivolta contro i caporali e lo sfruttamento nella raccolta del pomodoro in Puglia, mi sono chiesto,tra sentimenti contrastanti, “perché solo ora” e, sinceramente, “ma l’informazione televisiva del servizio pubblico, dov’era quando quei fatti sono avvenuti”. Perché quella storia, che conosco bene, è un po’ il paradigma dei problemi della nostra informazione televisiva. Già quando quei fatti avvennero ce ne siamo accorti tardi e male: almeno noi del Servizio Pubblico Radiotelevisivo. Nardò è una polveriera, si sa. Non solo per i braccianti ammassati nelle tende della Masseria Boncuri con poca acqua ed affittando anche i materassi usati per mangiare; a Nardò c’è un centro di accoglienza che esplode. Ed il 1° agosto del 2011, la protesta finisce in violenza; non tanto nell’accampamento dei raccoglitori di pomodori,ma nelle strade dove con la Polizia si scontrano le persone che dal centro di accoglienza escono per protestare per un permesso di soggiorno che non arriva mentre fioccano le espulsioni. E nella protesta finiscono anche una parte dei giovani raccoglitori sfruttati a 3 Euro e mezzo per ogni cassone di 3 quintali e mezzo di pomodori.
Ma mentre quel 1° agosto su Telerama, emittente locale, va in onda un ottimo servizio-inchiesta del giovane collega Danilo Lupo sullo sciopero della raccolta del pomodoro, sui canali Rai,tutti, quel giorno si vedono solo servizi sugli scontri, le aggressioni ad un troupe televisiva, lacrimogeni e strade bloccate. Perché fanno ascolto solo i rumori delle cariche di polizia? Perché i fumogeni e la gente con il fazzoletto sul viso attirano più spettatori? O perché è facile far vedere immagini con effetti e rumori, piuttosto che spiegare cosa sta realmente succedendo in quel pezzo di società italiana. E questo significa non fare servizio pubblico: così si mortifica la comprensione, cioè si evita di far capire i fatti , afferrandosi alla sola trasposizione delle immagini, da una schedina di telefonino alla televisione. Possono farlo tutti: a che serve una Rai Servizio Pubblico se invece di spiegare i fatti, si fanno solo vedere, come fa qualunque cittadino prendendo da You Tube le immagini che gli servono per una sua selezione personale? Per un servizio sullo sciopero dei braccianti bisogna arrivare al Tg3 delle 14,20 del 5 agosto. Dopo quel servizio la cortina del silenzio scende, a livello nazionale , sulla vicenda di Nardò, nonostante sul Web e sulle tv locali, girino molti servizi di tv locali o immagini ed interviste su quella vicenda che è unica a livello nazionale. Il 23 agosto del 2011 su “La Stampa” di Torino il collega Zancan pubblicava per la prima volta la storia di Yvan Sagnet, “capo” della rivolta dei braccianti stranieri schiavizzati. E’ studente al Politecnico di Torino, tra 3 esami sarà ingegnere, diventa un leader ed un personaggio. Allora se ne comincia a parlare e neanche tanto ,in fondo. Neanche quando il 25 settembre 2011, allo sciopero generale della Cgil, Yvan Sagnet ed i braccianti di Nardò parlano dal palco di Bari, neanche in quella occasione salgono agli onori della cronaca, pur avendo spiegato e difeso il loro sciopero anche alla notte della Taranta, il 28 agosto di quell’anno. Eppure, sullo slancio di quella mobilitazione e dopo mesi e mesi di battaglia politica, la legge contro il caporalato entra finalmente nel codice penale italiano come reato. Neanche questo basta per far emergere la notizia nel servizio pubblico.
Bisogna attendere che Yvan Sagnet scriva un libro, bisogna aspettare che Saviano parli di quello sciopero dei braccianti su La7 nel maggio di quest’anno; poi, finalmente, il libro di Sagnet entra in radio e Tv, arrivano le interviste , le spiegazioni, il ricordo dello sciopero di Nardò. E la prima serata TV in RAI arriva esattamente un anno e 4 mesi dopo, quando l’attualità è un ricordo; e non finisce alla ribalta per un telegiornale,ma per un programma serale, di intrattenimento, anche se importante e molto ben fatto. Ce ne sarebbe abbastanza per chiederci come e perché le notizie sono oscurate e non emergono in RAI: e ce n’è abbastanza per chiederci cosa è cambiato nel rapporto tra telegiornali e programmi e dove veramente si formano le notizie che diventano evento e spostano le opinioni degli spettatori, alimentando la crescita sociale, la tolleranza delle diversità, la crescita culturale. Oggi i programmi delle reti formano più opinione dei telegiornali. Lì si è spostato l’asse della conoscenza e quindi delle spiegazioni dei fenomeni sociali. E non tanto nei Talk Show,ma in quei pochi ma importanti programmi di inchiesta che sono usciti dalle programmazioni dei TG per entrare su quelli della rete, quasi esclusivamente sulla Rete 3. Che fine ha fatto la tradizione di TV7, dei Dossier del tg2 ? Perché non spostano opinione e non creano interesse ? Perché i giornalisti devono essere così mortificati nel loro lavoro, finendo per non fare più i giornalisti-giornalisti, come si diceva nell’ottimo film “Fortapasc” su Siani? Ma lo spostamento delle inchieste e degli approfondimenti, la conseguente formazione di opinione dai TG alle Reti non finisce per diventare anche un modo per depotenziare le inchieste stesse, finite tra intrattenimento e spettacoli, Film e fantascienza ? Tornano, come in un ciclo perpetuo, le domande sul ruolo dell’informazione pubblica, sulle tante altre notizie oscurate, mai emerse, censurate: sulla ricostruzione dopo il terremoto dell’Aquila che meritava le notizie al TG1 solo quando c’era di mezzo Berlusconi e per parlare bene delle sue new-town, poi rivelatasi un disastro. Ed i temi, come le nuove povertà, la crisi che colpiva gli italiani, le inchieste sugli scandali politici che non dovevano mai emergere nei Tg, al punto da portare alle dimissioni di importanti colleghe come Maria Luisa Busi.
Temi sociali oscurati e l’assuefazione che ne è derivata: da non sembrare più scandalo una censura o un servizio tagliato dal direttore di turno, una omissione voluta, una assuefazione che è spesso diventata autocensura. Sino a far apparire tutti i giornalisti indistintamente una casta, anche se così non è. Al punto che ,alla fine, si considera superflua la ‘riparazione’ personale e giornalistica di chi è stato espulso dal video per aver avuto la schiena dritta di fronte al direttore, in nome della notizia che non doveva essere oscurata. Di tutto questo e di molto altro a questi temi collegati, dovremo discutere a Aquasparta: ed anche per questo abbiamo chiamato a dialogare con noi giornalisti esponenti della società civile, delle associazioni come Don Luigi Ciotti, magistrati come il dott. Cardella, uomini di pace e della società come Flavio Lotti. E tutti coloro che di questi temi vorranno parlare per ridare dignità, ascolto e forza alla nostra professione. Ne va di mezzo il futuro del Servizio Pubblico Radiotelevisivo: e quindi anche nostro.