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Io chiedo scusa

Di Luigi Ciotti il . Campania, Dai territori, Interviste e persone

Cara signora,
ho visto questa mattina, sulle prime pagine di molti quotidiani, una
foto che La ritrae. Accovacciata su un furgoncino aperto, scassato, uno
scialle attorno alla testa. Dietro di Lei si intravedono due bambine,
una più grande, con gli occhi sbarrati, spaventati, e l’altra, piccola,
che ha invece gli occhi chiusi: immagino le sue due figlie. Accanto a
Lei la figura di un uomo, di spalle: suo marito, presumo. Nel suo
volto, signora, si legge un’espressione di imbarazzo misto a
rassegnazione. Vi stanno portando via da Ponticelli, zona orientale di
Napoli, dove il campo in cui abitavate è stato incendiato. Sul retro di
quel furgoncino male in arnese – reti da materasso a fare da sponda –
una scritta: “ferrovecchi”.

Le scrivo, cara signora, per chiederLe scusa. Conosco il suo popolo, le
sue storie. Proprio di recente, nei dintorni di Torino, ho incontrato
una vostra comunità: quanta sofferenza, ma anche quanta umanità e
dignità in quei volti.

Nel nostro paese si parla tanto, da anni ormai, di sicurezza. E’
un’esigenza sacrosanta, la sicurezza. Il bisogno di sicurezza ce lo
abbiamo tutti, è trasversale, appartiene a ogni essere umano, a ogni
comunità, a ogni popolo. E’ il bisogno di sentirci rispettati,
protetti, amati. Il bisogno di vivere in pace, di incontrare
disponibilità e collaborazione nel nostro prossimo. Per tutelare questo
bisogno ogni comunità, anche la vostra, ha deciso di dotarsi di una
serie di regole. Ha stabilito dei patti di convivenza, deciso quello
che era lecito fare e quello che non era lecito, perché danneggiava
questo bene comune nel quale ognuno poteva riconoscersi. Chi
trasgrediva la regola veniva punito, a volte con la perdita della
libertà. Ma anche quella punizione, la peggiore per un uomo – essendo
la libertà il bene più prezioso, e voi da popolo nomade lo sapete bene
– doveva servire per reintegrare nella comunità, per riaccogliere. Il
segno della civiltà è anche quello di una giustizia che punisce il
trasgressore non per vendicarsi ma per accompagnarlo, attraverso la
pena, a un cambiamento, a una crescita, a una presa di coscienza.

Da molto tempo questa concezione della sicurezza sta franando. Sta
franando di fronte alle paure della gente. Paure provocate
dall’insicurezza economica – che riguarda un numero sempre maggiore di
persone – e dalla presenza nelle nostre città di volti e storie che
l’insicurezza economica la vivono già tragicamente come povertà e
sradicamento, e che hanno dovuto lasciare i loro paesi proprio nella
speranza di una vita migliore.

Cercherò, cara signora, di spiegarmi con un’immagine. E’ come se ci
sentissimo tutti su una nave in balia delle onde, e sapendo che il
numero delle scialuppe è limitato, il rischio di affondare ci fa
percepire il nostro prossimo come un concorrente, uno che potrebbe
salvarsi al nostro posto. La reazione è allora di scacciare dalla nave
quelli considerati “di troppo”, e pazienza se sono quasi sempre i più
vulnerabili. La logica del capro espiatorio – alimentata anche da un
uso irresponsabile di parole e immagini, da un’informazione a volte
pronta a fomentare odi e paure – funziona così. Ci si accanisce su chi
sta sotto di noi, su chi è più indifeso, senza capire che questa è una
logica suicida che potrebbe trasformare noi stessi un giorno in
vittime.

Vivo con grande preoccupazione questo stato di cose. La storia ci ha
insegnato che dalla legittima persecuzione del reato si può facilmente
passare, se viene meno la giustizia e la razionalità, alla
criminalizzazione del popolo, della condizione esistenziale, dell’idea:
ebrei, omosessuali, nomadi, dissidenti politici l’hanno provato sulla
loro pelle.

Lo ripeto, non si tratta di “giustificare” il crimine, ma di avere il
coraggio di riconoscere che chi vive ai margini, senza opportunità, è
più incline a commettere reati rispetto a chi invece è integrato. E di
non dimenticare quelle forme molto diffuse d’illegalità che non
suscitano uguale allarme sociale perché “depenalizzate” nelle coscienze
di chi le pratica, frutto di un individualismo insofferente ormai a
regole e limiti di sorta. Infine di fare attenzione a tutti gli
interessi in gioco: la lotta al crimine, quando scivola nella demagogia
e nella semplificazione, in certi territori può trovare sostenitori
perfino in esponenti della criminalità organizzata, che distolgono così
l’attenzione delle forze dell’ordine e continuano più indisturbati nei
loro affari.

Vorrei però anche darLe un segno di speranza. Mi creda, sono tante le
persone che ogni giorno, nel “sociale”, nella politica, nella
amministrazione delle città, si sporcano le mani. Tanti i gruppi e le
associazioni che con fatica e determinazione cercano di dimostrare che
un’altra sicurezza è possibile. Che dove si costruisce accoglienza,
dove le persone si sentono riconosciute, per ciò stesso vogliono
assumersi doveri e responsabilità, vogliono partecipare da cittadini
alla vita comune.

La legalità, che è necessaria, deve fondarsi sulla prossimità e sulla
giustizia sociale. Chiedere agli altri di rispettare una legge senza
averli messi prima in condizione di diventare cittadini, è prendere in
giro gli altri e noi stessi. E il ventilato proposito di istituire un
“reato d’immigrazione clandestina” nasce proprio da questo mix di
cinismo e ipocrisia: invece di limitare la clandestinità la aumenterà,
aumentando di conseguenza sofferenza, tendenza a delinquere, paure.

Un’ultima cosa vorrei dirLe, cara signora. Mi auguro che questa foto
che La ritrae insieme ai Suoi cari possa scuotere almeno un po’ le
nostre coscienze. Servire a guardarci dentro e chiederci se davvero
questa è la direzione in cui vogliamo andare. Stimolare quei sentimenti
di attenzione, sollecitudine, immedesimazione, che molti italiani, mi
creda – anche per essere stati figli e nipoti di migranti – continuano
a nutrire.

La abbraccio, dovunque Lei sia in questo momento, con Suo marito e le
Sue bambine. E mi permetto di dirLe che lo faccio anche a nome dei
tanti che credono e s’impegnano per un mondo più giusto e più umano.

Luigi Ciotti,
presidente del Gruppo Abele e di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”

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