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Beni confiscati, nasce la rete

di Antonio Maria Mira il . Istituzioni, L'analisi

Le diocesi di Aversa, di Napoli, di Oppido-Palmi, di Crotone, di Agrigento, di Mazara del Vallo, di Trapani e di Piazza Armerina. Le parrocchie di Mondragone, Cerignola, Reggio Calabria, Gioia Tauro, Polistena. Caritas diocesane del Nord, del Centro e del Sud. Gruppi scout Agesci e associazioni di volontariato. Sono decine ormai le realtà della Chiesa italiana che gestiscono beni confiscati alle mafie. Luoghi di riscatto, di testimonianza, di educazione, di giustizia. Storie “vecchie” ormai di più di dieci anni. Esperienze che vanno incrementate, sostenute, rafforzate, messe in rete. È lo spirito con cui nasce il progetto “Libera il bene – Dal bene confiscato al bene comune”, promosso da tre organismi della Conferenza episcopale italiana e dall’associazione Libera, che in questi giorni sta iniziando il suo cammino. 
L’iniziativa che vede coinvolti l’Ufficio nazionale per i Problemi sociali e del lavoro, il Servizio nazionale di Pastorale giovanile e la Caritas italiana, è in questa prima fase indirizzata a 45 diocesi in 17 regioni, del Nord, del Centro e del Sud. Perché mafie e beni confiscati, ormai è noto a tutti, non sono solo legati al Mezzogiorno. Il progetto, come si legge nella lettera inviata ai delegati regionali e diocesani, prende spunto dalle riflessioni di due documenti dei vescovi italiani. Il primo è la nota pastorale Educare alla legalità del 1991 nella quale si ricordava come «il senso della legalità non è un valore che si improvvisa. Esso esige un lungo e costante processo educativo». Nel secondo, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, del 2010, dopo aver ribadito che «le chiese hanno fatto sorgere e accompagnano esperienze di rinnovamento pastorale e di mobilitazione morale» nella lotta alle mafie, si citavano le cooperative del Progetto Policoro, «alcune delle quali lavorano con terreni e beni sottratti alla mafia». Proprio partendo da queste affermazioni il progetto, si legge ancora nella lettera, «intende continuare e rafforzare l’opera di sensibilizzazione e supporto alla gestione dei beni confiscati alle mafie, diffondendo l’idea di una redistribuzione sociale delle risorse illecitamente sottratte alla collettività». 
L’obiettivo, si legge invece nel programma dell’iniziativa, è quello «di promuovere interventi integrati in grado di combinare in maniera efficace e funzionale la promozione del valore della legalità e il sostegno allo sviluppo locale del territorio». Un progetto molto concreto che vuole «sviluppare le conoscenze e le competenze in materia» e «promuovere un maggiore confronto territoriale». Insomma, “fare rete”. Proprio in questo senso si comincerà col «censimento delle esperienze positive e delle buone prassi già realizzate dalle varie espressioni di Chiesa», che sono davvero tante, «in modo da favorire percorsi di reciprocità e di sostegno». Anche perché «molte di queste realtà sono deboli e alcune di esse hanno subito intimidazioni e danneggiamenti come atti di ritorsione delle organizzazioni mafiose». Il secondo passo sarà «animazione e formazione per promuovere nuove opportunità di riutilizzo dei beni confiscati». È così previsto un ciclo di seminari formativi nelle 45 diocesi, con la partecipazione di docenti universitari, magistrati, rappresentanti dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione dei beni confiscati e delle prefetture. 
Vi saranno, inoltre, testimonianze delle esperienze positive realizzate. Seguirà la pianificazione di interventi, per ogni diocesi, per un concreto ed efficace utilizzo dei beni. Anche con visite guidate di giovani, campi di volontariato per gruppi parrocchiali e scout. E questo, conclude la lettera, per «trasformare i beni confiscati da beni posizionali (che ostentano il potere mafioso) in beni relazionali, capaci di creare relazioni di comunità».
       

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