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Trattativa: tiro “mancino” al Quirinale

Lorenzo Frigerio il . Giustizia, Istituzioni, L'analisi, Mafie, Politica, Sicilia

L’Italia boccheggia sotto i refoli bollenti di “Scipione l’africano”, l’anticiclone che dal Sahara si è spostato verso l’Europa, investendo l’Italia.

La temperatura, però, nei palazzi della politica si è innalzata rapidamente anche per motivi riconducibili ad un’altra estate di vent’anni fa, altrettanto calda.

L’estate del 1992 trascinò l’Italia sull’orlo del baratro, apertosi sull’autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci e poi reso più profondo dall’autobomba esplosa in via D’Amelio.

Nel ventennale delle stragi, si chiude, non senza sorprese, la delicata fase delle indagini relative a quei mesi convulsi del 1992, durante i quali vi fu una trattativa tra Cosa Nostra e “pezzi” delle istituzioni repubblicane per arrivare ad una tregua soddisfacente per entrambe le parti in causa. Contemporaneamente si apre il fronte delle polemiche, che questa volta chiamano direttamente in causa il Quirinale. Prepariamoci quindi a nuove rivelazioni e, nell’attesa, cerchiamo di capire cosa è successo, a partire dalle ultime.

Misteri del Quirinale? Risibile …

Sabato 16 giugno dal Quirinale viene diffusa una nota che, richiamandosi alle notizie apparse prima sul “Corriere della Sera” e “La Repubblica” e poi riprese da “Il Fatto quotidiano”, punta a smontare da subito ogni possibile strumentalizzazione: «Parlare di “misteri del Quirinale” è soltanto risibile».

In particolare, è una intervista pubblicata da “Il Fatto Quotidiano” al consigliere giuridico del presidente Napolitano, Loris D’Ambrosio, ad amplificare le rivelazioni sulle otto telefonate che, tra il novembre 2011 e l’aprile dell’anno in corso, sono intercorse tra D’Ambrosio e l’ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del CSM Nicola Mancino.

In queste chiamate Mancino, nel 1992 ministro dell’Interno, lamenta un presunto accanimento nei suoi confronti dei magistrati palermitani e il mancato coordinamento investigativo tra tutte le procure chiamate ad occuparsi dei fatti del 1992. Oltre Palermo, infatti, sono coinvolte Caltanissetta e Firenze, nella ricerca di una verità che ancora oggi scotta. Le telefonate furono accompagnate da lettere del medesimo tenore con una richiesta di intervento alla più alta carica dello Stato. D’Ambrosio di fatto ammette i contatti, ma non aggiunge altro per non chiamare in causa il rapporto con il presidente.

Nonostante il richiamo alle “ragioni di correttezza istituzionale” che assicurano un doveroso riserbo alle relazioni tra Capo dello Stato e il suo staff, nonostante si voglia “stroncare ogni irresponsabile illazione”, la nota ufficiale del Quirinale finisce comunque con l’offrire un riscontro indiretto al pressing, dando comunicazione dell’invio di una lettera a firma del Segretario generale della Presidenza, Donato Marra, al Procuratore generale presso la Cassazione, Vitaliano Esposito.

Con la missiva, datata 4 aprile 2012, si trasmette una lettera di Mancino che «si duole del fatto che non siano state fin qui adottate forme di coordinamento delle attività svolte da più uffici giudiziari sulla “c.d. trattativa” che si assume intervenuta fra soggetti istituzionali ed esponenti della criminalità organizzata a ridosso delle stragi degli anni 1992-1993». La lettera si chiude, esprimendo l’auspicio di Napolitano per l’adozione di misure volte a «dissipare le perplessità che derivano dalla percezione di gestioni non unitarie delle indagini collegate, i cui esiti possono anche incidere sulla coerenza dei successivi percorsi processuali».

Nulla si sarebbe saputo di questi colloqui e passaggi se la procura di Palermo non avesse intercettato Mancino, poi finito nel registro degli indagati. Una decisione obbligata, quella di disporre le intercettazioni telefoniche a suo carico: secondo quanto ha spiegato nelle ultime ore Antonio Ingroia, coordinatore del gruppo di magistrati che si occupa di ricostruire quel frangente della storia repubblicana, si voleva evitare che gli esponenti delle istituzioni chiamati a deporre potessero concordare una versione.

«Un uomo solo va protetto»

Il Quirinale quindi rivendica il proprio ruolo, nell’ambito delle prerogative disegnate dalla Costituzione, dopo il richiamo al Pg della Cassazione di evitare contrasti possibili, «al fine di pervenire tempestivamente all’accertamento della verità su questioni rilevanti, nel caso specifico ai fini della lotta contro la mafia e di un’obbiettiva ricostruzione della condotta effettivamente tenuta, in tale ambito, da qualsiasi rappresentante dello Stato».

Fin qui quello che riguarda il Presidente Napolitano; va da sé che nelle ultime ore esponenti politici di diversi partiti si sono espressi, prendendo chi le difese del capo dello Stato e chi censurandone l’intervento sulla Cassazione. Resta però la sgradita impressione nella pubblica opinione che non tutti i cittadini abbiano la possibilità  di lamentarsi di pressioni indebite da parte dei magistrati, tanto da potersene dolere con lo staff del presidente della Repubblica e arrivare a porre la questione fino alla Procura generale della Corte di Cassazione.

Ne esce senza dubbio un quadro a tinte fosche, frutto amaro dell’italico vizio, duro a morire, di cercare sempre e comunque di trovare vie d’uscite diverse da quelle previste dalla legge.

In una di queste telefonate Mancino offre di sé una definizione lapidaria che suona anche come una sinistra minaccia: «Un uomo solo va protetto». Va protetto per una semplice ragione: perché «potrebbe chiamare in causa altre persone».

D’Ambrosio ritiene che queste, come le altre parole rilasciate da Mancino nel corso delle telefonate ricevute, siano uno sfogo, prodotto dallo stress successivo alla deposizione resa ai pm della procura della Repubblica di Palermo, nel corso del processo a Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento aggravato per il mancato arresto del boss Provenzano nel 1995.

Proprio nel dicembre 2011, la posizione processuale dell’ex presidente del Senato cambia, a fronte delle domande incalzanti dei pm che registrano in diretta i fatti, tanto da far dire al sostituto procuratore Nino Di Matteo: «Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti: quindi qualcuno mente. Ora è compito della procura e del  tribunale capire come sono andate veramente le cose».

Che Mancino temesse molto un confronto con Claudio Martelli e che abbia cercato, inutilmente, di sottrarsi fino all’ultimo, è ormai altrettanto notorio: l’ex ministro della Giustizia ha confermato di aver chiesto conto, senza esito alcuno peraltro, al suo collega di governo Mancino delle attività dei Ros dei carabinieri in quelle settimane tra Capaci e via D’Amelio.

Oggi sappiamo che nell’inchiesta sulla trattativa Mancino è accusato anche di falsa testimonianza: l’ipotesi è che, oltre ad essere a conoscenza dei motivi che avrebbero sancito il cambio della guardia al Viminale, con lui al posto di Scotti, non avrebbe poi detto il vero agli inquirenti.

Lo avrebbe fatto per coprire altri uomini dello Stato, all’epoca in posizioni apicali delle nostre istituzioni. I nomi di Gava e Scalfaro, infatti, escono dalle telefonate intercettate rese alla moglie – “Non ho parlato di Gava” – e in un’altra a D’Ambrosio – “Cerchiamo di evitare il coinvolgimento di Scalfaro” – ma resta ancora tutto da chiarire a che cosa si riferisse esattamente.

Indagati eccellenti

Nell’atto di chiusura delle indagini sulla ormai tristemente nota trattativa, troviamo dodici nomi: i boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, Salvarore Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà; gli ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori, Giuseppe De Donno;  i politici Calogero Mannino, Nicola Mancino, Marcello Dell’Utri e, per finire, Massimo Ciancimino.

Tutti costoro, tranne Mancino e Ciancimino, secondo l’ipotesi investigativa, sono accusati di aver turbato la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano, ed in particolare del Governo della Repubblica, minacciando l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti, alcuni realizzati, ai danni di esponenti politici e delle Istituzioni (artt.338 e 339 c.p.).

Per Ciancimino si prospetta l’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa, mentre dovrà in altra sede rispondere di calunnia nei confronti di Gianni De Gennaro, ex capo della polizia e dei servizi e ora sottosegretario del governo Monti, per un maldestro tentativo di  coinvolgimento nella fase della trattativa.

Oltre al nome di Nicola Mancino, coinvolti in quella confusa fase della nostra storia recente, troviamo quelli di altri due ex ministri Calogero Mannino e Giovanni Conso.

Il primo avrebbe svolto un ruolo fondamentale nell’avviare la trattativa tra Cosa Nostra e le istituzioni, volto a far cessare la stagione delle stragi avviata dai “corleonesi” che avevano nel mirino, tra gli altri, lo stesso Mannino, reo ai loro occhi di non aver mantenuto i patti stipulati, comprensivi del buon esito per il sodalizio criminale del maxiprocesso in Cassazione.

Una ragione personale, personalissima, avrebbe quindi spinto Mannino a mettersi in moto, già all’indomani dell’omicidio del compagno di partito Salvo Lima. Mannino si dichiara pubblicamente indignato per quella che definisce “ostinazione capricciosa” della pubblica accusa: «Non posso non sottolineare che questa è la più tragica vittoria di Cosa nostra che non essendo riuscita ad uccidere il sottoscritto si vede regalata la coimputazione di alcuni avversari tra i più tenaci». Un ulteriore contributo all’esito del patto con la mafia Mannino lo avrebbe offerto in seguito, concretizzando pressioni volte a rendere meno pesante il carcere duro per i boss, disposto dall’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, voluto per imprimere un giro di vite al trattamento carcerario degli esponenti mafiosi.

E sul 41 bis e la sua applicazione a cadere è un altro ex ministro, Giovanni Conso, anche lui accusato di falsa testimonianza, sebbene non sia indagato per la trattativa. Anche se il procedimento per ora rimane sospeso in attesa della definizione del processo principale, appunto quello sulla trattativa, desta forti perplessità il coinvolgimento di un esponente delle istituzioni, fin qui dal cursus honorum immacolato.

All’indomani dell’iscrizione nel registro degli indagati per false informazioni rese al pubblico ministero, all’interno della stessa magistratura si sono creati due fronti contrapposti: chi non reputa Conso minimamente sospettabile di alcunché e chi, al contrario, si rimette alle capacità investigative dei colleghi, in attesa di capire meglio i contorni della vicenda.

Dopo un suo intervento in Commissione Antimafia nel novembre 2010, nel corso del quale ritornò sulla vicenda del mancato rinnovo del carcere duro per oltre trecento mafiosi, scaduti i termini tra novembre 1993 e gennaio 1994, ai magistrati palermitani che ne  accolsero la testimonianza, l’ex guardasigilli confermò di “avere agito in solitudine”. Coinvolti in questa vicenda, per analoghi profili Adalberto Capriotti, all’epoca al vertice del sistema carcerario e l’attuale europarlamentare dell’Udc Giuseppe Gargani, già Forza Italia e prima ancora Dc.

Da Mannino a Dell’Utri, passando per il Ros

Questo del 41 bis è un nervo scoperto che entra a pieno titolo nel capitolo della trattativa, visto che nell’atto di chiusura delle indagini vengono chiamati in causa anche due persone scomparse da tempo, l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi e il magistrato Francesco Di Maggio, già vicedirettore delle carceri italiane. Anche loro si sarebbero attivati, nell’ambito delle rispettive competenze, per far sì che si arrivasse ad un accordo volto ad abbandonare definitivamente la stagione stragista, inaugurata con gli omicidi di Salvo Lima e Giovanni Falcone.

Se il quadro fin qui delineato venisse confermato successivamente, ci troveremmo di fronte ad istituzioni repubblicane in balia dei ricatti sanguinari di Cosa Nostra. Per salvare sé stesso prima che lo Stato, un potente uomo politico come Mannino si sarebbe speso per attivare un canale di comunicazione con la fazione vincente all’interno di Cosa Nostra, i temibili “corleonesi”, anomalia nella secolare storia della mafia in grado di imporsi con la violenza bruta anche sullo Stato.

In seguito, a raccogliere il testimone dei colloqui avviati sarebbero stati alcuni ufficiali dei carabinieri, che discutendo con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino avrebbero intavolato una vera e propria trattativa, volta a recepire alcune delle istanze dei capi di Cosa Nostra per chiudere la stagione delle stragi: il “papello” di Toto Riina costituirebbe la summa finale di questo lavorio sotterraneo e osceno per gli stessi protagonisti.

Il risultato finale della trattativa? Secondo i magistrati della procura  palermitana «reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista, e dall’altra all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato». Si pensi alla mancata cattura di Provenzano, per la quale oggi Mori e Obinu sono sotto processo.

Ultimo soggetto attivo, capace di traghettare la trattativa nella seconda Repubblica, sarebbe stato il senatore Marcello Dell’Utri, propostosi e attivatosi come mediatore al posto di Lima prima e che poi, dopo gli arresti di Riina e Ciancimino, «rinnovò tale interlocuzione agevolando il progredire della trattativa».

L’esito ultimo di tale intensa attività di Dell’Utri fu il recepimento da parte del nuovo capo del governo, Silvio Berlusconi, della minaccia di continuazione della strategia stragista nel caso le richieste di Cosa Nostra non fossero state accolte. Una risposta positiva sarebbe arrivata a Bagarella e Brusca, tramite Dell’Utri e il fidato “stalliere” di Arcore Vittorio Mangano. Il recepimento delle loro istanze sarebbe stato utile a rafforzare i boss nei propri piani criminosi e volto a rinsaldare la forza dell’organizzazione mafiosa e per ciò stesso in grado di danneggiare gli interessi dello Stato.

E ora?

L’avviso di chiusura dopo quattro anni indagini non significa la contestuale chiusura dell’inchiesta sulla trattativa che per altri profili continua ad occupare, in modo diverso, il lavoro delle tre procure che abbiamo ricordato all’inizio.

Non è stato un passaggio facile, vista la mancanza in calce all’atto delle firme del procuratore Francesco Messineo e del sostituto Paolo Guido, al fianco di quelle di Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene. Difficile non pensare a polemiche interne alla Procura di Palermo, vista la scelta così plateale di non firmare l’atto e visti i precedenti del palazzo dei veleni.

Restano indubbi i legami con le indagini sul movente della strage di via D’Amelio: l’accelerazione dell’omicidio di Paolo Borsellino sarebbe direttamente proporzionale alla conoscenza dell’esistenza da parte dello stesso di una qualsivoglia trattativa con Cosa Nostra.

E nonostante Mori e De Donno si ostinino a posticipare dopo il 19 luglio l’avvio dei colloqui con Ciancimino, la verità comincia ad emergere.

Una verità di Stato, difficile comunque da digerire, tanto più con questo caldo, visto che nemmeno i temporali previsti dopo “Scipione l’africano” sembrano in grado di ripulire l’aria e riportare il sereno.

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