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Le mani delle ‘ndrine sulla Salerno – Reggio Calabria

Di redazione il . Calabria

La “strategia della tensione” messa in campo dai boss continua senza sosta. Incendi, danneggiamenti e altri avvertimenti alle imprese che realizzano in Calabria i lavori per la Salerno – Reggio Calabria non si fermano. E si spingono sino ad imporre la manodopera. E’ la ‘ndrangheta a fare cassa su lavori pubblici e a controllare il territorio. Stavolta nel mirino dei clan, le ditte che stanno realizzando l’ammodernamento della SS 18 in prossimità del comune di Scilla, il 6° macrolotto dell’A3 Salerno – Reggio Calabria, l’opera che sembra assomigliare  al buco nero degli appalti pubblici in Italia. Questa volta, la cosca al centro dell’indagine “Alba di Scilla” realizzata dai Carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria, su provvedimento della Procura della Repubblica  – Direzione Distrettuale Antimafia, è la “Nasone – Gaietti” accusata di associazione di tipo mafioso ed estorsione.  Le indagini risalgono all’estate del 2011 e hanno confermato l’esistenza e la piena operatività di questa “ndrina” sul territorio. L’inchiesta prende il via  anche dalla denuncia di chi non si è piegato a pagare il pizzo, “quel  3% e non meno” che come emerge dalle intercettazioni telefoniche – doveva andare alla cosca. Nonostante le continue intimidazioni e la paura il sistema si è inceppato e gli inquirenti sono riusciti a portarlo alla luce. Dodici gli arresti per la cosca “capeggiata” dal boss Giuseppe Virgilio Nasone.  
L’indagine. Arrestato in flagranza di reato nel giugno del 2011 il pregiudicato Giuseppe Fulco è solo uno dei fattori che hanno portato a scoprire in maniera inequivocabile il sistema che la cosca “Nasone – Gaietti” aveva messo in piedi per la riscossione del pizzo sui lavori di ammodernamento  dell’autostrada A3 Salerno – Reggio Calabria. Danneggiamenti, incendi, e molte altri metodi intimidatori in pieno stile mafioso sono stati gli strumenti con i quali i boss si sono imposti su questo tratto di lavori e sulle imprese che li stavano realizzando. Molto spesso, si legge nell’inchiesta, se i primi segnali intimidatori venivano raccolti, si passava ad imporre la manodopera, che costituiva da quel momento anche il collegamento diretto con l’organizzazione mafiosa. Se questo non accadeva si continua a minacciare l’imprenditore e danneggiare macchinari e attrezzi della ditta appaltatrice sino ad ottenere il “risultato” voluto. Gli inquirenti chiamano questa continua vessazione “la strategia della tensione” messa in atto da queste cosche per impadronirsi di pezzi interi di lavori pubblici e di economia locale. Controllo che doveva essere tenuto in assoluto regime di monopolio e qualsiasi tentativo di concorrenza economica veniva stroncato sul nascere. L’arresto in flagranza di Fulco, mentre chiede il pizzo ad una impresa, non ferma la cosca che come si evince dall’indagine cerca di continuare a riscuotere la “tassa mafiosa” con le opportune cautele. L’indagine racconta di un sistema consolidato e diffuso, in un passaggio uno dei testimoni dei tentativi di estorsione racconterà agli inquirenti: «… mi faceva capire che anche le altre imprese che lavorano in zona sono soggette alle medesime richieste e che è normale che corrispondano una cifra proporzionale all’importo dell’appalto che stanno eseguendo… mi chiedeva di consegnare tale somma entro tre giorni… ». Gli investigatori seguono i boss con intercettazioni ambientali ma anche gli incontri in carcere, con i familiari. Tramite microfoni e telecamere riescono a conoscere le dinamiche del clan, la preoccupazione per l’arresto e i prossimi futuri e le possibili microspie piazzate in macchina o in altri luoghi in cui si muovono. Ancora una volta, intermediarie dal carcere verso l’esterno, due donne della famiglia. Le imprese, una buona parte di quelle che pagavano la quota alle ‘ndrine per poter lavorare, avevano escogitato anche un modo per far figurare il 3% chiesto dai boss come una spesa, una quota  chiamata, in un caso “costo di sicurezza”. Gli inquirenti nell’inchiesta “Alba di Scilla” la chiamano tassa ambientale e va così avanti da decenni, anche per i grandi gruppi imprenditoriali. E come si evince dalle intercettazioni telefoniche, in tempo di crisi, quando una impresa annuncia licenziamenti per operai e chiusura cantieri, l’unica esigenza delle “famiglie” mafiose è pensare a come mettere subito “in regola” il prossimo che arriverà a prendere il posto. Come mettere subito in chiaro questo “pedaggio” da pagare su un’autostrada che non si riesce a terminare, né migliorare. Cantieri nei quali dal 2008 ad oggi più di tredici operai hanno perso la vita. E spesso anche queste morti, le ragioni di queste morti sul lavoro, sono coperte dall’omertà e dai business criminali.   Le cosche da tempo hanno “suddiviso” i lavori e le competenze e quell’area dove ricadono i lavori di ammodernamento dell’A3 è “ dei Nasone”. 

La cosca Nasone – Gaietti. Già coinvolti, anche attraverso sentenze passate in giudicato, i Nasone Gaietti sono una cosca che gravita nella zona di Scilla. La precedente inchiesta a loro carico si chiama “Cyrano”. In primo grado a Reggio Calabria sono stati condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso (almeno sino al 1993).  In secondo grado alcune accuse vennero riformate e altre furono confermate ma rimase in piedi il cuore dell’accusa: il 416 bis. Nella famiglia il pentimento di Rocco Nasone ha consentito di conoscere meglio l’articolazione della cosca e gli affari. Confermandone l’esistenza e l’egemonia del territorio. Le inchieste degli ultimi anni sono una radiografia di queste attività a scopi estorsivi e “l’Alba di Scilla” conferma il loro controllo su un tratto della Salerno – Reggio Calabria. Molti degli arrestati dell’operazione scattata oggi fanno parte dello stesso nucleo familiare e gli investigatori sottolineano che la cosca ha dimostrato anche di essere “in grado di infiltrarsi con facilità all’interno degli apparati investigativi dello Stato, carpendo illecitamente informazioni segrete sulle indagini in corso”, in particolare sulla registrazione audio visiva dei colloqui in carcere fra Fulco e le donne della famiglia che indicano “Domenico Nasone come fonte privilegiata di queste informazioni”.

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