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Il metodo Falcone

Di Gian Carlo Caselli il . L'analisi

Per comprendere appieno  il ruolo di Giovanni Falcone nella lotta alla mafia occorre partire dalla stagione  che la mafia non esisteva. Nel senso che fior di notabili (Cardinali, Procuratori generali, politici ….) ne negavano ufficialmente e solennemente l’esistenza. E se qualcuno osava pensarla diversamente, era un  pericoloso provocatore, comunista o nordista a seconda delle accezioni. Ora, è evidente che se qualcosa non esiste, nessuno la cerca. E se qualcuno un po’ border line la cerca lo stesso, difficilmente la trova. Se proprio è fortunato o particolarmente capace, riesce ad afferrare qualcosa, ma soltanto dei brandelli. E la realtà investigativo-giudiziaria  di questa stagione, in cui la mafia non esiste, è che di processi se ne fanno pochi, e praticamente tutti si concludono –  inesorabilmente e sistematicamente –  con assoluzioni per insufficienza di prove.
Il panorama cambia quando entrano in campo Giovanni Falcone e gli altri magistrati del pool di Palermo diretto prima da Chinnici e poi da Caponnetto. Falcone ( che sapeva bene che la mafia … esisteva)  ha il merito di inventare ed attuare un metodo di lavoro che  – raccontato oggi –  può sembrare una banalità, ma per quei tempi era una vera e propria rivoluzione. Quel metodo era imperniato sui parametri della “specializzazione” e  della “centralizzazione”. I componenti del pool devono fare soltanto antimafia e nient’altro, in modo da affinare progressivamente le loro conoscenze, specializzandosi sempre di più. Basta  poi con la frammentazione, segmentazione, parcellizzazione delle poche inchieste del passato.  Col nuovo metodo  tutti i dati relativi a Cosa Nostra devono confluire in un unico motore di raccolta, in modo da consentire una visione organica, completa dell’organizzazione. E allora il singolo fatto criminoso, che prima ( preso a sé, isolatamente) risultava indecifrabile,  adesso  – inserito nel contesto, nella struttura organizzativa di Cosa Nostra –  parlerà un linguaggio comprensibile e saranno definibili anche le responsabilità individuali. Altro merito di Falcone e del pool fu quello di intraprendere con incisività la strada delle indagini patrimoniali, violando in questo modo santuari fin lì sostanzialmente inesplorati  che si rivelarono invece preziosissimi. Infine, il metodo Falcone comprendeva anche l’uso intelligente ( sempre sostenuto da un rigoroso rispetto delle regole)  dei “pentiti”, indispensabili per conoscere i segreti della mafia, così da poter penetrare all’interno dell’organizzazione criminale, senza limitarsi a scalfirne la superficie.
Questo metodo paga. Ne vien fuori un capolavoro investigativo-giudiziario: il maxi-processo (maxi perché enorme –  maxi appunto  –  era stata l’impunità di cui la mafia aveva goduto fino a quel momento). Per la prima volta nella storia d’Italia vengono portati alla sbarra – con prove sicure – mafiosi siciliani di primaria grandezza criminale che fino ad allora avevano potuto godere di una sostanziale impunità. La fine del mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra: 475 imputati per associazione mafiosa, 120 omicidi e innumerevoli altri reati; 360 condanne per un totale di 2.665 anni di carcere e diciannove ergastoli comminati ad alcuni tra i boss più influenti di Cosa Nostra. La fine del mito dell’invulnerabilità di Cosa Nostra, la dimostrazione coi fatti ( nell’osservanza scrupolosa delle procedure) di quanto avesse ragione Giovanni Falcone, tutte le volte che sosteneva che la mafia è una vicenda umana come tutte le altre: perciò ha un inizio, uno sviluppo e può benissimo avere una fine. Basta – questa fine – volerla;- e organizzarsi perché arrivi.

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