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Così hanno ucciso Lea Garofalo

Di Marika Demaria il . Sicilia

«Tutti gli imputati hanno commesso i reati a loro contestati. Non vedo però come agli stessi si possa riconoscere l’aggravante mafiosa, considerato un precedente processo nel quale sono stati assolti da questa accusa. Chi non ha premuto il grilletto non si differenzia dagli altri, non è certamente migliore. Tutti hanno agito con crudeltà e pervicacia. È orrendo pensare ad una donna immobilizzata, legata, terrorizzata, torturata e poi uccisa. È nauseante pensare a un padre che sfrutta il desiderio di una figlia che vorrebbe comprarsi una felpa ma che non ha i soldi, ingannandola, dicendole “Vieni da me che ti compro io ciò che vuoi” pur sapendo che Denise sarebbe partita solo con la madre, e che dunque quella sarebbe stata l’occasione per tendere una trappola a Lea. Mentre preparavo la requisitoria, mentre rileggevo le carte, mi sono reso conto che di questa donna di cui abbiamo analizzato la vita al microscopio, in realtà non sapevo nulla, non ho avuto la fortuna di conoscerla. Vi chiedo di dare giustizia a lei e a chi la piange, i colpevoli hanno un nome e un cognome: quello degli imputati. Condannateli alla pena più giusta: l’ergastolo. Forse se trascorreranno lunghi anni in carcere arriverà il rimorso, che mai e poi mai abbiamo visto in questi mesi». Così il pubblico ministero Marcello Tatangelo ha concluso la sua brillante e chirurgica requisitoria, durata circa 15 ore, occupando l’intera udienza di lunedì e protrattasi sino al pomeriggio dell’udienza di ieri, martedì 27. Ripercorrendo la vita della testimone di giustizia, i fatti di Campobasso (il tentativo di sequestro del maggio 2009) e quelli di Milano, in un coacervo di date, situazioni, intercettazioni telefoniche, dichiarazioni dei teste. Direttamente dalle parole del pm Tatangelo, ecco le parti più significative della sua requisitoria.    

Lea Garofalo, una vita sotto la lente. La giovane testimone di giustizia nasce a Petilia Policastro nel 1974. Quando aveva nove mesi, suo padre viene ucciso in una faida tra famiglie rivali. Una situazione famigliare che la costringe ad una infanzia ed adolescenza terribili, sulle quali incombe il  dogma per cui “Il sangue si lava con il sangue”. Un concetto che suo fratello Floriano ha fatto proprio, seguendo le orme del padre e rimanendo a sua volta vittima di un agguato, nel 2005. A 14 anni si innamora di Carlo Cosco, partono alla volta di Milano e nel 1991 diventano genitori di Denise. Nel maggio 1995 l’omicidio di Antonio Camberiati, che gestiva un traffico di stupefacenti insieme a Carlo e Giuseppe Cosco. Lea aveva parlato agli inquirenti di quanto accaduto: Camberiati l’aveva offesa, un’onta che il suo convivente non poteva sopportare. Quel giorno di maggio squarciato da alcuni colpi di pistola esplosi in viale Montello, Giuseppe Cosco dirà a Lea “Non voleva morire quello, aveva il diavolo in corpo”.  Dopo l’arresto di Carlo Cosco nel 1996 – sarà prosciolto dall’accusa di omicidio ma condannato per spaccio e traffico di droga –  Lea Garofalo, in uno dei colloqui nel carcere di San Vittore, gli confesserà di volere andare via per avere una vita migliore, per dare a Denise un futuro diverso. Mettetevi nei panni di Carlo Cosco: abbandonato dalla sua donna nel momento del bisogno, si vede portare via la figlia. Un’umiliazione, una vergogna troppo grande da sopportare, un disonore. L’onore. Non certo come lo interpretiamo noi, che abbiamo una mentalità lontana anni luce dalla loro. Lea si traferisce a Bergamo insieme alla figlia Denise. Trascorreranno anni in cui non avranno amici ma nemmeno nemici, anni di solitudine, durante i quali svilupperanno un rapporto molto forte tra loro, quasi morboso, ma è inevitabile se si considera la vita che hanno condotto. Trasferimenti continui, private delle loro identità, isolate da tutti. Una vita difficile che metterebbe a dura prova chiunque: ma Lea non era pazza, era fragile e impulsiva, ma pazza decisamente no.   

La vendetta. La prima volta in cui Carlo Cosco decise di attuare il piano per eliminare la sua convivente era il 2001. Chiese al collaboratore di giustizia, suo compagno di cella, Angelo Salvatore Cortese, di uccidere Lea e di scioglierne il corpo nell’acido. Perché si potesse pensare che se ne fosse andata via. Ma la donna aveva sempre detto che non si sarebbe mai allontanata da sua figlia, che era la sua vita. Il piano però non fu attuato, in quel periodo c’erano assetti ‘ndranghetisti da rivedere e questa vicenda d’onore passò in secondo piano.  Nel lasso di tempo che intercorre tra quest’episodio e il tentativo di sequestro del maggio 2009, ci sono gli anni di vita blindata di Lea Garofalo e Denise Cosco. La chiave di volta di quanto accaduto  a novembre 2009 è da ricercare qui, a Campobasso: Massimo Sabatino che entra nell’appartamento fingendosi un tecnico e che scappa dopo che Lea afferra un coltello e sopraggiunge anche la figlia. Ad attenderlo sotto Carlo e Giuseppe Cosco, con un furgone dentro il quale si trovano 50 litri di acido. A Sabatino gli erano stati promessi 20 mila euro per il lavoro, lui non sapeva chi fosse Lea Garofalo ma sapeva che l’avrebbe dovuta legare a terra e che poi sarebbe arrivato Giuseppe Cosco, mentre lui avrebbe dovuto rubare un quantitativo di droga che era nell’appartamento.   

 Da maggio a novembre 2009. Il piano dunque fallisce. Denise non sarebbe dovuta essere in casa, questo ha messo in fuga Massimo Sabatino. Tre persone dunque non bastano. Per il resto il piano sarebbe stato perfetto. Lea sarebbe stata trasportata con il furgone in una masseria in Puglia, che Giuseppe Cosco aveva chiesto a Pasquale Amodio quando si erano visti in occasione della cresima di suo figlio, lì uccisa e sciolta nell’acido. Tutti i dettagli del piano sono stati raccontati da Massimo Sabatino a Salvatore Sorrentino, che ha iniziato a collaborare nel 2010 e che con Sabatino divideva la cella; aveva deciso “di lavorarselo”. E si evincono da una serie di lettere che l’imputato ha inviate alla compagna Jessica Cristofori: Sabatino scrive di essere stato “fregato da quelli. Mi hanno promesso dei soldi, ‘amo quelli devono mantenere me, la mia famiglia e pure a te”.  Intanto Lea Garofalo e Denise Cosco tornano a Pagliarelle. Fino al mese di novembre, quando partono per Firenze per presenziare a un processo. Il 20 novembre madre e figlia incontrano l’avvocato Enza Rando. In tasca hanno cento euro che sono stati dati loro da Marisa Garofalo. Non avevano programmato di andare a Milano, ma Lea Garofalo telefona al convivente lamentando di essere senza liquidità, incapace di comprare anche solo una felpa alla loro figlia. Questa è l’occasione giusta. Carlo Cosco parla con la figlia, le chiede di raggiungerlo a Milano, al viaggio e al pernottamento ci penserà lui.    

Quella maledetta sera. Così Lea Garofalo e la figlia partono alla volta del capoluogo lombardo. Alloggeranno – registrandosi con i propri nomi – al’Hotel Losanna, e passeranno diverse ore, dal 21 al 24 novembre, in compagnia di Carlo Cosco. Che si dimostrerà gentile per riacquistare la fiducia dell’ex convivente. Fredda strategia, che gli permetterà di far salire Lea Garofalo sulla sua auto intorno alle 19 del 24 novembre. L’accompagnerà in un appartamento di Massimiliano Floreale, socio di Rosario Curcio per la gestione del solarium, che tutti gli imputati hanno più volte utilizzato. In casa ci sono Massimo Sabatino e Carmine Venturino, mentre due complici con accento straniero – rumeni, polacchi, magari polacchi, magari (il riferimento a Damian Janczara è evidente, n.d.a.) – attendono sotto casa, in un furgone prestato loro da un cinese (che testimoniò in una dell
e prime udienze). Immobilizzano Lea Garofalo, la legano, la terrorizzano. Il piano prevede che l’esecuzione sia consumata in un capannone isolato, ma Gaetano Crivaro aveva dato le chiavi dello stesso al suo amico Marino, non rintracciabile. Cambio di programma. Curcio e Venturino chiedono a Floreale di prestare loro anche un box auto, adducendo come scusa il fatto che avrebbero dovuto lasciare dei pezzi di ricambio per la Fiat Coupé di Venturino. Così abbandonano l’appartamento e si dirigono verso il box. Lea Garofalo è ancora viva. Marino viene rintracciato: il magazzino è disponibile. La donna viene portata dal box al terreno di Crivaro. Lì Giuseppe e Vito Cosco la interrogano e poi la uccidono, con un colpo alla nuca. Nonostante il lavoro certosino e rigoroso dei Carabinieri, è praticamente impossibile ricostruire alcune ore della notte tra il 24 e il 25 novembre 2009. Tuttavia, è verosimile che il furgone sia rimasto parcheggiato fino all’indomani mattina, quando Curcio e Venturino hanno recuperato le chiavi del magazzino, che saranno restituite al proprietario il 28 mattina. In quei giorni, Venturino, Curcio e Vito “Sergio” Cosco si recano spesso nel magazzino, come si evince dai tabulati telefonici. Questo per controllare il processo di scioglimento del corpo della donna. Secondo la perizia del dottor Testi, infatti, occorrono circa 72 ore per sciogliere un corpo di 50 chili (Lea Garofalo ne pesava 56) in altrettanti litri di acido, come dimostrato dall’incidente probatorio effettuato con un suino. Il liquido è poi stato gettato e assorbito dal terreno, tant’è vero che i cani, nell’immediatezza delle ricerche condotte dai Carabinieri, si erano fiondati proprio verso quella fossa biologica. Ecco qual è stata la fine della testimone di giustizia Lea Garofalo, a 35 anni.  Il pubblico ministero Marcello Tatangelo ha infine accusato i tre teste d’alibi Renata Plado (convivente di Giuseppe Cosco), Francesco Ceraudo e Carlo Toscano di falsa testimonianza, in quanto sotto giuramento avevano dichiarato di essere stati con l’imputato la sera del 24 novembre 2009.

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