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Placido Rizzotto, il tempo è galantuomo

Di Saverio Lodato il . Sicilia

Sessantaquattro anni dopo, lo Stato italiano si è convinto che Placido Rizzotto fu ammazzato da mano mafiosa. E che fu ammazzato in quel di Corleone, dai sicari mafiosi al soldo di Luciano Liggio. E che il cadavere venne fatto ruzzolare appositamente nella foiba di Roccabusambra affinchè nessuno andasse a curiosare.  L’unico testimone che aveva visto tutto, il pastorello Giuseppe Letizia di appena tredici anni, venne tolto di mezzo con un’iniezione letale dal dottor Michele Navarra, primario dell’ Ospedale dei Bianchi, sempre in quel di Corleone, nonché mafioso e sodale proprio di Luciano Liggio.                 

Tutto questo,  i familiari di Placido Rizzotto –  contadino semianalfabeta, giovanissimo partigiano sui monti della Carnia, tornato nel dopoguerra a Corleone per diventare, da segretario della Camera del lavoro, la bestia nera di agrari, latifondisti e mafiosi- lo sapevano benissimo. E il segreto non lo tennero per loro.  Andarono in processo, raccontarono tutto quello che sapevano, tutto quello che tutti sapevano,  in quel di Corleone; che Liggio e Navarra erano i mandanti e gli artefici del duplice omicidio. Naturalmente, non vennero creduti. Naturalmente, gli imputati alla sbarra vennero scagionati. Naturalmente, nessun rappresentante dello Stato di allora ebbe l’idea di calarsi nella foiba per recuperare quei poveri resti che avrebbero dato spessore giudiziario alle accuse dei parenti. Ci volevano troppi soldi, fu la giustificazione. E, altrettanto naturalmente, per oltre mezzo secolo scese il velo del silenzio su una figura leggendaria del movimento sindacale che pagò con il sacrificio di decine e decine di suoi dirigenti, in ogni angolo della Sicilia, l’idea, che a molti appariva malsana, che la terra fosse data ai contadini.

 Anni fa, per l’esattezza alla fine di marzo del 2004, andai a Corleone per un’inchiesta in quattro puntate sul mistero di Bernardo Provenzano, anche lui nato in quel di Corleone, che a quei tempi sembrava scomparso nel nulla. Mi accompagnò Dino Paternostro, miniera vivente di informazioni sulla storia del paese,  fondatore del mensile «Città Nuove», e che già all’età di sedici anni aveva imparato a impattare con i mafiosi a muso duro. La scoperta stupefacente la feci al cimitero.  Che tombe, e che cappelle gentilizie, e che pregiati marmi di Carrara, a perenne ricordo della genia mafiosa in quel di Corleone.

Una cappella sontuosa, che faceva il verso alla Cappella Palatina a palazzo dei Normanni, sede dell’ assemblea regionale siciliana, intitolata proprio al «dottor»  Michele Navarra che,  con le sue mani, aveva iniettato il cianuro al povero pastorello tredicenne testimone del delitto. E, a pochi passi,  la cappella dei Cutrera, quelli che avevano messo a disposizione dei killer la stalla dalla quale avrebbero sparato, il 13 novembre 1915, a Bernardino Verro, sindaco di Corleone, che, quasi cinquant’anni prima di Rizzotto,  era stato anche lui posseduto da quel maledetto demone della “terra a chi la lavora”.         

 Un’intera area, mafiosa e  funeraria, del cimitero di Corleone,  a perenne memoria, ancora oggi,  dei sicari, della sanguisughe della povera gente. Mi aggirai per un po’ fra le cappelle dei Vintaloro e dei Maiuri- Zanghi, altri cognomi pesanti che per decenni avevano imposto il terrore. Vidi la tomba dove riposa Luciano Liggio, in compagnia del fratello e della cognata. Ma la sua foto non c’è, perché i familiari non vollero dare questa «soddisfazione» ai giornalisti quando “Lucianeddu”, come si faceva chiamare, – correva il 15 novembre 1993- esalò l’ultimo respiro. Naturalmente, Bernardino Verro era in un loculo comune.

Naturalmente, a Placido Rizzotto non era toccata neanche una targa di cartone. E fu proprio fra quelle tombe, che Dino Paternostro mi disse che, quasi a compensazione di un’assenza che nel cimitero gridava vendetta,  il 3 novembre 1985 l’amministrazione comunale, aveva eretto un busto alla memoria di Bernardino Verro nel Parco delle Rimembranze al centro di Corleone . Esattamente settant’anni dopo la sua uccisione per mano mafiosa. Ci sono voluti sessantaquattro anni per Placido Rizzotto. Ce ne sono voluti settanta per Bernardino Verro.  A modo suo, il tempo è galantuomo. 

Un ottimo lavoro quello dei poliziotti che nel 2009 decisero di scendere finalmente nelle viscere di Roccabusambra. E ottimo lavoro quello dei loro colleghi della scientifica di Palermo, che sono riusciti finalmente a dimostrare che il Dna di quelle ossa erose dal tempo e dalla cattiveria degli uomini e’ proprio quello di Placido Rizzotto. Qualcuno ora, naturalmente, si chiederà: «ma a che serve andare alla ricerca dei Dna perduti?» Serve. Eccome se serve.  Quantomeno serve a mettere un po’ d’ordine in certi cimiteri italiani.

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