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Processo Garofalo, è il turno dei Cosco

Di Marika Demaria il . Calabria, Lombardia

Terminate le deposizioni dei teste convocati dal pubblico ministero Marcello Tatangelo, sono iniziati a comparire davanti alla Corte presieduta da Anna Introini i testimoni chiamati dalle difese dei sei imputati. Giovedì 9 l’attenzione era tutta per Carlo Cosco che, attraverso il proprio legale Daniele Steinberg, aveva manifestato la volontà di testimoniare. Proprio però dalle parole dell’avvocato difensore, si è appreso che «il mio assistito non ha più intenzione di rendere la propria deposizione. Non se la sente. Io ho fatto presente che si tratterebbe dell’unica ed ultima occasione, ma questa è la decisione dell’imputato Carlo Cosco».

Tutti gli imputati per il processo atto a far emergere la verità sulla scomparsa di Lea Garofalo, per l’accusa sequestrata, uccisa e sciolta nell’acido la sera tra il 24 e il 25 novembre 2009 a Milano, quindi, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Come da rituale, ognuno di loro si è presentato comunque sul banco dei testimoni, dichiarando le proprie generalità e confermando la propria linea difensiva. Il primo è stato proprio Carlo Cosco, classe 1970, chiuso nel suo giubbotto nero, un accenno di sorriso stampato sulle labbra. Rispondendo alle domande di rito della Corte spiega di avere conseguito la terza media e di lavorare come muratore. Va ricordato che all’imputato è stato riconosciuto il patrocinio legale gratuito in quanto il suo reddito è inferiore al minimo richiesto per poter ottenere un difensore; di fatto, le sue spese legali sono a carico dello Stato. Spiega di essere stato arrestato per droga e di essere domiciliato in via Montello 6, a Milano.

Suo fratello Giuseppe Cosco ammette di abitare con la convivente Renata Plato nello stesso stabile. Classe 1964, incensurato, diploma di terza media in tasca, alla domanda del Presidente Introini riguardo alla sua attività lavorativa risponde: «Nel 2010 stavo facendo la voltura della partita Iva per aprire un negozio come calzolaio insieme a mio fratello Massimo; è che poi mi hanno arrestato…». Giuseppe Cosco detto Smith – «mi ci chiamavano da bambino, così, non ha un senso» – si avvale della facoltà di non rispondere «che poi mi peggioro, non mi so esprimere, spiega scoppiando a ridere e suscitando l’ilarità anche del pubblico presente in aula, formato da parenti e amici degli imputati.
Jeans e maglioncino bianco, ad essere accompagnato dagli agenti di polizia penitenziaria innanzi alla Corte è Vito Cosco, di un anno più grande del fratello Carlo. Un procedimento in corso per droga che inizierà il 2 marzo, l’imputato – conosciuto a Petilia Policastro come Sergio «un nome così, mica c’è un perché» – abita in via Montello 6, padre di tre figli avuti dalla moglie Giuseppina Scalise. Scuote la testa: «No, no non voglio rispondere», accenna un saluto rivolto alla Corte e si fa riaccompagnare nella gabbia degli imputati.

Entrambi i fratelli chiedono che, in caso di scarcerazione, la notifica sia trasmessa in via Montello 6, «sperando che la casa ci sia ancora». Un riferimento fatto di mezze frasi ma che rimanda all’attuale situazione di quello stabile: di proprietà dell’Ospedale Maggiore di Milano, è di fatto occupato in maniera abusiva da diverse famiglie; in seguito a dei controlli, alcune abitazioni sono state murate, impedendo l’accesso agli inquilini non regolari. Nel corso delle indagini preliminari, Rosario Curcio si era sempre rifiutato di rispondere alle domande degli inquirenti e dei Carabinieri. Ribadisce la sua volontà, mutuata nel corso di una passata udienza anche dalla sua convivente Elisa Vona, dalla quale ha avuto un bimbo di un anno. Curcio, 35 anni, incensurato, la scritta “Milano” che campeggia sulla sua felpa, spiega di essere socio di un solarium insieme a Massimiliano Floreale.

Jeans e giubbotto nero, è il turno di Carmine Venturino. Si mostra sicuro di sé rasentando la spavalderia, e racconta che il suo soprannome “Pilera” l’ha ereditato da suo padre, che era chiamato allo stesso modo, ma è senza significato. Spiega che per un lungo periodo ha abitato a Milano in una casa in affitto regolarmente a lui stipulato, e che altrettanto regolarmente ha dato ospitalità a Carlo Cosco, con il quale ha anche lavorato presso i cantieri della metropolitana a Milano. «Poi me ne sono venuto in Calabria e ho preso in gestione con Denise una pizzeria. Non voglio rispondere, io so il dialetto ma mica l’italiano! Ho un procedimento in corso per droga (lo stesso di Vito Cosco, n.d.a.), che vuole che le dica signor giudice, è un accanimento nei miei confronti, peggio di Berlusconi». I parenti scoppiano a ridere.

Infine, Massimo Sabatino, nato a Pagani nel 1973, condannato nel 2005 a 21 anni e sei mesi per rapina. Al momento dell’arresto (avvenuto il 17 dicembre 2009), faceva le pulizie presso l’ipermercato Coop, ingaggiato attraverso un’agenzia interinale, conviveva con Jessica Cristofori, che ha già deposto rifiutando anche solo l’idea che il suo compagno potesse aver fatto qualcosa a Lea Garofalo, «perché a mio figlio non ha dato mai nemmeno una sberla». Di fatto, Sabatino è stato condannato in via definitiva a sei anni per il tentato sequestro ai danni di Lea Garofalo, il 5 maggio 2009 a Campobasso. Era lui il sedicente tecnico della lavatrice che ha aggredito la donna. L’imputato decide di avvalersi della facoltà di non rispondere, ma questa presa di posizione è, secondo il pm Tatangelo, frutto di minacce. L’avvocato aveva già fatto presente, quando aveva chiamato a deporre la sorella dell’imputato, Paola Sabatino, che la stessa non aveva risposto alle domande in quanto sarebbe stata minacciata dai Cosco e che per questo motivo si richiedeva l’utilizzo dei verbali resi a suo tempo dai Carabinieri. Le difese si erano opposte a detta richiesta, e la loro opposizione era stata accolta dalla Corte. Il pm vuole agire nello stesso modo anche per Massimo Sabatino.

Tatangelo spiega che anche in questo caso «siamo di fronte a un atto intimidatorio» e fa riferimento a un episodio ben preciso. «Il 21 settembre gli agenti della polizia penitenziaria, in una relazione di servizio, riferiscono che Venturino, durante la traduzione dal carcere al tribunale, si è avvicinato a Sabatino apostrofandolo come “infame” e scatenando la sua reazione che urlando risponde “Infame a me? Che per colpa vostra mi sto facendo sei anni! Se ti avvicini ti stacco la testa, pezzo di merda!”». Per quella e l’udienza successiva (durante le quali depose Denise Cosco), in aula Sabatino fu diviso dagli altri imputati; poi si ritornò nella piccola aula della prima corte d’Assise, e tutti gli imputati furono di nuovo messi nella stessa cella, ma per qualche udienza lui cercava di tenersi distante dagli altri. Il pm, alla luce di questi fatti, ha chiesto quindi l’acquisizione dei verbali contenenti le dichiarazioni rese da Massimo Sabatino durante le indagini preliminari.
Immediate le reazioni. Gli stessi Venturino e Sabatino chiedono di rendere delle deposizioni spontanee. Escono nuovamente dalla gabbia, e fanno presente che non c’è stata alcuna lite.

«Io ho detto “Hai visto che infamità che ci hanno arrestati”» spiega il primo e il secondo ribadisce il concetto, sottolineando che «se fossi stato minacciato non starei qua con loro». Poi ritorna nella cella, e passando a fianco del pm si rivolge a lui chiedendo «A’ finisci di dire strun…». Le difese si oppongono. Steinberg parla di speculazioni a carico di Sabatino, indica la gabbia: «Ma li vedete, signor giudice? Eccoli là, Venturino è un bravo ragazzo e se Sabatino fosse davvero un infame, per le leggi interne al carcere sarebbe già stato traferito».

La Corte ha sciolto la riserva nel corso dell’udienza di venerdì. Gli imputati sembravano irrequieti, sicuramente meno tranquilli del giorno prima. I verbali resi da Massimo Sabatino potranno essere acquisiti e utilizzati nel corso del procedimento. L’avvocato Daniele Ste
inberg, facendosi portavoce di tutta la difesa, ha espresso evidente disappunto per la decisione del giudice, etichettandola come una “discrasia logica” e chiede che, considerati i verbali come prova a carico dell’imputato, per lo stesso sia fatto valere il principio della prova a discarico, che si potrebbe concretizzare solo ascoltando come teste gli agenti che hanno redatto la relazione di servizio.

Respinta anche questa istanza. Secondo la Corte, infatti, le dichiarazioni dei due imputati sono inequivocabili e fanno riferimento a un episodio già conclamato e conclusosi con una condanna, cioè l’episodio di Campobasso. Il processo proseguirà con l’udienza di lunedì 13.

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