Mario Francese, il reporter scomodo ucciso dai boss
«Francese non era un giornalista comune, era uno che sapeva tutto sui mafiosi». Un lusso che Cosa nostra non poteva di certo permettersi. Così, la sera del 26 gennaio del 1979 quattro colpi di pistola uccidevano Mario Francese, voce libera dell’informazione siciliana. Giornalista di nera nel Giornale di Sicilia, Francese con le sue inchieste aveva dato molto fastidio ai boss. Queste le dichiarazioni di Gaspare Mutolo, collaboratore di giustizia, inserite nella sentenza di appello del 2002 per l’omicidio Francese.
Un processo lungo, prima archiviato e poi riaperto, nel 1993, grazie all’insistenza dei familiari del giornalista e alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Mutolo, Contorno, De Carlo, solo per citarne qualcuno. Erano gli anni bui della presa del potere corleonese su Palermo. I “viddani”, come erano definiti Riina, Provenzano e soci, stavano scientificamente eliminando la vecchia guardia mafiosa dell’Isola. Attentati, omicidi, ma anche tanti affari. Un’avanzata che non prevedeva intoppi di sorta. Francese con il suo lavoro di inchiesta stava diventando un problema. Dalle pagine del Giornale di Sicilia andava a fondo nelle notizie. Inchieste e collegamenti che delineavano la strategia corleonese. Non solo omicidi, e Cosa nostra in quegli anni ne compì tantissimi, ma anche gli intrecci con il mondo della politica e dell’imprenditoria siciliana. Come l’inchiesta sulla costruzione della diga Garcia, dove Totò Riina aveva forti interessi.
«Francese – dice ancora Mutolo in un verbale inserito nella sentenza d’Appello – aveva scritto molti articoli sulla diga. Mi ricordo in particolare che furono uccisi due camionisti e lui scrisse un articolo riconducendo questi omicidi ai lavori della diga. Oltre al Riina si interessavano i lavori anche i mafiosi del Trapanese, prima naturalmente che Riina prendesse il sopravvento anche in quel territorio». Un altro collaboratore di giustizia, Francesco De Carlo, boss molto vicino a Riina e Provenzano, aggiunge: «Ho sentito dire che quel giornalista scriveva troppi articoli attaccando i Corleonesi, e cioè i componenti della famiglia mafiosa di Corleone, in particolare scriveva di Liggio e di Riina, e ciò faceva andando troppo in profondità, “scavando” per capire meglio i fatti di cronaca». Una minaccia che doveva essere messa a tacere in fretta.
E’ stata la passione per il mestiere, l’impegno per andare oltre alla narrazione dei fatti di cronaca, a rendere Mario Francese un pericolo per Cosa nostra. Come lui numerosi altri giornalisti. Sono stati otto quelli uccisi soltanto in Sicilia. L’anniversario dell’omicidio di Francese, il trentatreesimo quest’anno, è coinciso con la divulgazione del rapporto sullo stato della libertà di informazione nel mondo, redatto da Reporters sans Frontiers. Quest’anno l’Italia è scesa tristemente al 61° posto. Tra i motivi di questo ennesimo scivolone c’è la minaccia rappresentata dalle mafie. I boss non tollerano chi rende pubblici i propri affari, vogliono il silenzio e fanno di tutto per ottenerlo. Non sparano più, o lo fanno di meno, ma continuano a minacciare e intimorire chi fa, seguendo l’esempio di Francese e degli altri giornalisti vittime delle mafie, il proprio mestiere “scavando” dentro le notizie. L’osservatorio Ossigeno per l’informazione, costituito dalla Federazione della stampa e dall’Ordine dei giornalisti, calcola che in questi primi scampoli del 2012 sono stati 19 i giornalisti minacciati dai boss. Una situazione pericolosa che compromette una delle libertà più importanti, sancite dall’articolo 21 della Costituzione.
Ricordare Mario Francese oggi, rileggendo i suoi articoli e le sentenze che hanno condannato mandanti ed esecutori del suo omicidio, significa impegnarsi per un’informazione libera e realmente indipendente. Una battaglia fondamentale per l’Italia del 1979, ma anche per quella del 2012.
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