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Luigi Ciotti e il “decalogo delle speranze praticate”

Di Ilaria Giupponi il . Emilia-Romagna

Ufficialmente sarebbe stata la presentazione di un libro, quella in programma all’Archiginnasio di Bologna lo scorso 16 gennaio. L’occasione: l’uscita del volume La speranza non è in vendita (edito da Giunti). E invece il suo autore, don Luigi Ciotti, è riuscito a trasformare l’appuntamento in un momento di vibrante impegno di lotta alla mafia e denuncia dei tipi più insospettabili e silenti di connivenza, quelli della società cosiddetta civile. Ad accoglierlo il sindaco Virginio Merola, l’amico pedagogista Andrea Canevaro, trai promotori della laurea ad honorem in Scienze dell’Educazione conferita dall’Alma Mater a don Ciotti, e la sua allieva Stefania Pellegrini ora docente a Giurisprudenza del primo corso di mafie e antimafia. Ma soprattutto: centinaia di persone che affollavano la magnifica aula Stabat Mater, venute a sentire le parole del prete combattente e la presentazione del suo “decalogo delle speranze praticate”.
Il “libro che non è un libro”, come lo definisce lui, è la summa di esperienze condivise e di un impegno comune. Di un “noi”, di cui la sua firma si fa umilmente portatrice. Corresponsabilità e condivisione infatti, sono presupposti irrinunciabili su cui il fondatore del Gruppo Abele e di Libera, pone l’accento instancabilmente, se si vuole costruire una giustizia che sia degna di questo nome. Perché l’ingiustizia è  ovunque, anche a Bologna. Come anche il sindaco ammette: “La mafia è presente fra noi e va contrastata. Non è negandolo che si isola il fenomeno”, esordisce il sindaco, la cui Giunta ha di recente costituito l’assessorato alla Legalità, presieduto da Nadia Monti già assessore al Commercio.
Proprio le mafie al Nord sono la miccia: “Mi stupisco di chi si stupisce – esordisce don Luigi – la mafia non è infiltrata, ma insediata al nord da oltre 50 anni: Bruno Caccia è stato ucciso a Torino nell’83 – riferendosi al magistrato ucciso dalla ‘ndrangheta – e nel 1990 ci furono oltre 3000 arresti a Milano”. Tuttavia, la regione rossa avrebbe “degli anticorpi” e a dare un barlume di speranza alle parole del sacerdote è la notizia, del giorno stesso, del finanziamento di quasi 2 milioni di euro stanziati dalla Regione Emilia Romagna per la realizzazione di ben 68 progetti ideati per prevenire e contrastare in maniera capillare la criminalità organizzata comune per comune, provincia per provincia. 
Tra questi, un Osservatorio per  legalità e sicurezza, che verrà istituito a Piacenza, che si pone l’obiettivo di realizzare attività di monitoraggio, raccolta, analisi dei dati, e migliorare le conoscenze sul fenomeno mafioso, nonché di fornire informazioni agli operatori del commercio e agli enti locali per evitare fenomeni di infiltrazione mafiosa. Stessa cosa è in progetto a Bologna per il 2012, ad opera del neonato assessorato, e si occuperà di raccogliere segnalazioni dei bolognesi, suggerendo loro le norme a disposizione per combattere l’usura e l’estorsione.
È proprio denunciando la stessa legalità, che ormai sembra essere diventato uno spauracchio dietro al quale le cose continuano indisturbate a non essere contrastate, che don Ciotti graffia le coscienze, come dice lui: “La legalità è diventata una bandiera che tutti usano. Rischia di diventare solo un grande slogan. Ci vuole una risposta chiara dei cittadini, c’è troppa gente che si autoassolve”. Chiama alle armi della conoscenza e della corresponsabilità: “Siamo tutti chiamati a sconfiggere un peccato, che è il peccato del sapere”. 
Per Ciotti, la mancanza di approfondimento, la superficialità e l’approssimazione sono mali che ci rendono complici responsabili del proliferare dell’ingiustizia “troppo sapere di seconda mano” che genera “un impoverimento culturale non indifferente nel nostro paese”, contrastato da persone come il giovane cronista di Modena Giovanni Tizian, finito recentemente sotto scorta per aver commesso il fatto, ovvero: aver fatto il suo mestiere. Con Tizian, che come molti bravi giornalisti non è portaborse di nessuno”, don Ciotti ha passato l’ora prima dell’incontro, e si appella: “Vi prego, non dimenticate Giovanni”, perché “io stanco di sentire la solidarietà del giorno dopo”, quella che lascia soli appena spenti i riflettori. Non perdona le facili ondate emotive del nostro paese bisognoso di eroi: “la memoria diventa cerimonia e le promesse vengono cancellate dai giorni”.
Il rimprovero accorato, porta a Bologna una Sicilia dimenticata, quella della giovane Rita Atria, che a 17 anni ha sconfitto l’appartenenza mafiosa, la lacerazione dalla famiglia per essere una testimone di giustizia, ma non resse all’uccisione di Falcone e Borsellino, suo padre adottivo. La ricorda leggendo ciò che scrive nel suo tema di maturità: “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi”, e incalza: “la mafia è anche a Bologna: nell’omertà e nell’indifferenza”.
È un fiume inarrestabile, don Luigi. Ricorda Rosario Livatino e la folgorazione di Giovanni Paolo II, che portò nel 1993 alla prima condanna ecclesiastica della mafia dalla Valle dei Templi, in seguito a una frase del “giudice ragazzino”: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Ricorda Chinnici, Torrenova, Dalla Chiesa, ma anche Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicilio, gli agenti della scorta di Falcone morti insieme al giudice e le loro madri, le cui lacrime hanno dato via al 21 marzo, giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, che quest’anno si celebrerà a Genova sabato 17 “per andare incontro ai lavoratori”. E soprattutto ricorda i senza nome, i dimenticati perfino dalle liste del ministero, “morti tutti per la stessa ragione. Per la libertà di una vita dignitosa”.

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