Riparte il processo per il delitto della testimone di giustizia, Lea Garofalo
«Signor giudice, io contesto tutto. Non è vero che io sono stato minacciato dai Cosco, e nemmeno la mia famiglia. Secondo voi, io starei tranquillo in questa cella vicino a loro?». Loro sono Carlo, Vito e Giuseppe Cosco, a parlare è Massimo Sabatino. Aula della prima Corte d’Assise d’Appello, 10 gennaio, ripresa delle udienze per il processo Lea Garofalo. Poco prima dello sfogo dell’imputato, era comparsa in aula la sorella, Paola, che si era avvalsa della facoltà di non rispondere, in quanto sua famigliare. Una decisione che il pm Marcello Tatangelo ha cercato di contrastare, ricordando alla Corte che «il teste Salvatore Sorrentino aveva riferito che i Cosco avevano minacciato l’intera famiglia Sabatino. Si ritiene dunque plausibile che sia per questo motivo che Paola Sabatino non voglia più testimoniare». Un’affermazione che ha scatenato la reazione dell’imputato, oltre alla ferma e compatta opposizione della difesa. La Corte – presieduta da Anna Introini – ha respinto le acquisizioni fornite dal pubblico ministero, relative all’incidente probatorio nel corso del quale la Sabatino aveva invece testimoniato.
L’udienza di ieri – alla quale l’imputato Rosario Curcio ha rinunciato a comparire – ha visto tornare in aula alcuni dei teste già ascoltati nel corso delle udienze precedenti, quando il Presidente della Corte era Filippo Grisolia, poi nominato capo di Gabinetto del ministro della Giustizia. Il primo teste ad essere riascoltato è stato Enza Rando, responsabile dell’ufficio legale di Libera, la quale ha confermato la deposizione resa lo scorso 20 settembre. «La prima volta che ho incontrato Lea Garofalo – ha raccontato l’avvocato – ci siamo viste a Roma, presso la sede dell’associazione. Lei aveva chiamato i nostri uffici presentandosi con il suo nome di battesimo e spiegando che aveva bisogno di un supporto, in quanto collaboratrice di giustizia». Un’etichetta che la donna tentò di staccarsi di dosso, sottolineando con forza che lei era in realtà una testimone di giustizia. «Questo aspetto l’amareggiava moltissimo – ricorda l’avvocato Rando – così come ricordo lo sconforto di Lea Garofalo quando mi raccontava che le sue denunce nei confronti del compagno Carlo Cosco non erano sfociate in alcun processo». Enza Rando e Lea Garofalo si incontrarono per l’ultima volta a Firenze il 20 novembre 2009, prima che la giovane donna, insieme alla figlia Denise (che il legale conobbe proprio in quella circostanza), partisse alla volta di Milano, dove ad attenderle c’era l’imputato Carlo Cosco. «Ho cercato più volte di dissuaderla, ma invano. Lea mi diceva che fino a quando sarebbe stata con sua figlia non le sarebbe potuto succedere niente, e che avrebbe dovuto incontrare il compagno per discutere non solo del futuro della ragazza, ma anche per chiedergli dei soldi, un’indennità di maternità che lei aveva percepito ma che di fatto era stata prelevata dal suo convivente. Le ho spiegato – ricorda Enza Rando – che se si trattava di una questione di denaro, la nostra associazione sarebbe potuta intervenire, magari anticipando una somma che lei avrebbe poi restituito, o aiutandola a cercare un posto di lavoro. Perché lei, privata della sua reale identità (ma senza i documenti di copertura, n.d.a.), in continuo spostamento verso località protette, sentiva lesa la propria dignità, che avrebbe voluto riacquistare lavorando, cercando di avere una vita normale».
Gli avvocati difensori hanno, con le loro domande, cercato di meglio capire in che rapporti fosse Lea Garofalo con il fratello Floreano (ucciso in un agguato l’8 giugno 2005): «Mi disse solo – ha risposto Enza Rando – che non era uno stinco di santo». In merito alle domande riguardanti lo stato di Denise Cosco e dei suoi spostamenti dopo la sparizione della madre, l’avvocato, richiamando l’articolo 200 del codice penale in merito al segreto professionale, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Enza Rando ha infine risposto alle domande di Roberto D’Ippolito, rappresentante della mamma e della sorella di Lea Garofalo, costituitesi parte civile al processo. Insieme hanno ripercorso le tappe della misura provvisoria del sistema di tutela nel quale erano state inserite Lea Garofalo e Denise Cosco. «Lea aveva chiesto, alla fine, di rinunciarvi, perché era molto sfiduciata. Quando mi aveva parlato dell’aggressione avvenuta a Campobasso aveva il terrore negli occhi, mi diceva che era sicura che fosse il suo compagno il mandante; ma era anche molto abbattuta, perché durante i rilievi i Carabinieri avevano trovato una quantità di sostanze stupefacenti. Ricordo che mi disse: “Hanno tentato di ammazzarmi, e adesso va a finire che divento io la criminale, per un po’ d’erba”».
Successivamente è stata la volta di Angelo Cortese: il collaboratore di giustizia, in videoconferenza, ha ribadito quanto affermato lo scorso 27 ottobre: «Carlo Cosco mi chiese di uccidere la sua compagna e di scioglierla nell’acido in modo che si potesse inscenare un allontanamento volontario. Sapeva che lei lo aveva denunciato e che aveva una relazione con un altro uomo, e queste sono cose che non si possono perdonare per il nostro onore». Cortese ha inoltre riferito che tra Floreano Garofalo, fratello di Lea Garofalo ucciso in un agguato l’8 giugno 2005, e Carlo Cosco, ci fosse un’alleanza. Un aspetto che Daniele Sussman Steinberg, avvocato difensore di quest’ultimo, ha definito «rilevante», alla luce delle dichiarazioni fornite dal Tenente dei Carabinieri Francesca Ferrucci. Il militare (che ha deposto ieri per la seconda volta) ha infatti spiegato nuovamente che Lea Garofalo si era rivolta ai Carabinieri di Campobasso per «come aveva spiegato ai miei colleghi, “parlare dell’omicidio di mio fratello, per il quale è coinvolto Carlo Cosco”».
La prossima udienza si svolgerà lunedì 16 gennaio.
clicca qui per leggere l’approfondimento sulle udienze precedenti
Trackback dal tuo sito.