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Antimafia al Nord

Di Nando dalla Chiesa il . L'analisi, Lombardia

Il lungo sonno è finito. Il nord, o almeno la sua parte più attiva, non dorme più. Non pensa più che la mafia o la ‘ndrangheta siano cose che non lo riguardano; che il massimo che possono fare i cittadini e i giovani settentrionali sia (come, meritoriamente, hanno fatto scuole e amministrazioni dagli anni ottanta) promuovere gemellaggi con il sud, sostenere chi nelle regioni cosiddette di trincea si batte contro le organizzazioni criminali. Finalmente si sta facendo strada una convinzione rivoluzionaria: i clan sono sotto casa nostra, cercano spazio nei nostri consigli comunali, ridisegnano i nostri paesi e piani regolatori, sono all’attacco di un’economia che si presumeva vergine, cambiano gli stessi costumi civili.

Mercoledì 26 sera Palazzo Marino, ossia il Municipio di Milano, era straripante di persone di ogni età, ma soprattutto giovani, per affermare che la mafia a Milano esiste. Non era la prima volta che la grande sala Alessi si riempiva per ragionare di “mafie”. Ma è stata la prima volta che è aleggiato quasi palpabile nel pubblico un pathos particolare. Il pathos di chi avverte il pericolo, sente di essere coinvolto direttamente. L’incendio di un centro sportivo del comune nella periferia nord, realizzato alle cinque del pomeriggio in probabile risposta alla estromissione dalla gestione di una società sospettata di infiltrazioni, è stato per tutti un punto di svolta. Così come è stato un punto di svolta la reazione subito promossa dal consiglio di zona: un migliaio di partecipanti, oltre ogni previsione. O la scelta del sindaco di Pisapia di nominare un comitato di esperti antimafia a sostegno della sua azione di governo, specie in vista dell’Expo. Preoccupazione e speranza di farcela, dunque. 

Milano non è tutto il nord, naturalmente. Ma è anche la sua provincia, è anche quella di Monza e Brianza, o di Lecco, o di Varese, o di Pavia, o di Bergamo, a segnare una mobilitazione proporzionale all’impatto delle informazioni sciorinate nell’estate del 2010 dalla ormai celebre inchiesta Crimine-Infinito, realizzata insieme dalle procure di Milano e di Reggio Calabria. Lo scenario di una ‘ndrangheta in continua espansione, con le imprese del cemento risucchiate nella sua orbita fino alla disperazione, l’immagine di una parte della regione ormai (scientificamente parlando) colonizzata, il profilo ben definito -al di là degli avvisi di garanzia o dei rinvii a giudizio- dei rapporti con la politica (comunale, regionale, nazionale) vengono evocati serata dopo serata da una ormai consistente pattuglia di oratori e agitatori civili e consiglieri comunali che stanno dando ai cittadini coscienza di quanto è accaduto. E segnali analoghi si ritrovano nella Liguria dove solo tre anni fa la sindaco Marta Vincenzi venne rimbrottata da stampa e istituzioni per avere gettato l’allarme sulla presenza della mafia a Genova. Oppure nel Piemonte dove la procura torinese di Giancarlo Caselli ha scoperchiato la nuova rete degli insediamenti e delle complicità in provincia di Torino.

I piccoli comuni. Lì sta, più che nella famigerata Borsa, il vero retroterra logistico e sociale della ‘ndrangheta egemone. Lo dimostrano in controluce le inchieste, lo dimostrano gli studi di comunità promossi dalle università milanesi, specie dalla facoltà di Scienze Politiche della Statale. I piccoli comuni senza un comando dei carabinieri e al massimo con un solo vigile urbano. I piccoli comuni condannati al cono d’ombra, a non suscitare mai l’attenzione della stampa. I piccoli comuni dove con quindici o venti preferenze ti prendi il consigliere comunale, e dove la forza dell’intimidazione diventa legge più facilmente.

E poi, come raccontano inchieste e studi, tutti i comuni dove gira come un veleno mortale la corruzione, vero “capitale sociale” portato in dote ai clan dalla società non mafiosa. Di questo, non di meno, si sta prendendo coscienza.

A questo, nel nord, ci si sta incominciando a ribellare.

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