La procura di Palermo chiede il rinvio a giudizio per il senatore Antonio D’Alì
Il suo nome è stata una costante nelle indagini antimafia più recenti. La cosiddetta mafia borghese, quella che ha “comandato” su Trapani e la provincia è finita spesso associata alla sua persona. Lui è uscito dal silenzio protestando perché continuamente il suo nome viene accomunato a “malefatte” e “complotti”. Adesso però per il senatore Antonio D’Alì, “patron” berlusconiano a Trapani (sindaco del capoluogo Fazio permettendo perché rotta l’antica alleanza tra i due non c’è per niente pace) si prospetta l’ingresso da indagato nell’aula del giudice delle udienze preliminari del Tribunale di Palermo. La Procura antimafia di Palermo ne ha chiesto infatti il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. La firma in calce al provvedimento è quella del procuratore aggiunto Teresa Principato e dei sostituti procuratore Paolo Guido e Andrea Tarondo.
Il nodo è quello del rapporto mafia, imprese e politica. Sullo sfondo nell’atto di accusa formato dalla Procura antimafia di Palermo, formato da diversi faldoni, si staglia (e nemmeno come un “fantasma”) la figura di Matteo Messina Denaro, il super latitante di Cosa nostra trapanese, cresciuto affianco al padre, don Ciccio Messina Denaro, campiere nei terreni dei D’Alì – e come ha raccontato l’ex moglie del senatore, la signora Picci Aula – capitava talvolta che il piccolo Matteo passasse le giornate nella tenuta dei D’Alì. Non sono questi gli episodi che hanno portato oggi il senatore ad un passo dal processo per mafia. L’inchiesta è fatta di ben altro, cominciando proprio dalla vicenda che gira attorno ai terreni di Zangara.
I fatti. Il pentito di mafia Francesco Geraci già nel corso di un processo che contrapponeva un altro D’Alì, il prof. Giacomo, cugino del senatore ed ex componente del Cda della Comit, e il deputato ed ex presidente nazionale dell’antimafia, Francesco Forgione, riferì che quel terreno fu oggetto di una falsa compravendita tra i D’Alì e la famiglia mafiosa locale. I denari pagati davanti al notaio sarebbero stati riconsegnati dai D’Alì a Geraci che puntualmente ha detto di averli preso presso la sede della banca, quando questa aveva i suoi uffici direzionali nel corso Piersanti Mattarella a Trapani. Il racconto di Geraci avrebbe trovato riscontro anche nelle dichiarazioni di alcuni suoi congiunti. La difesa di D’Alì ha tirato fuori un compromesso risalente al 1982 e però la storia dei soldi restituiti non sarebbe del tutto infondata, e in questo contesto è saltato fuori il nome di Pietro D’Alì, fratello del senatore, anche lui avrebbe partecipato alla restituzione.
L’indagine è stata riaperta quando stava per essere archiviata ed è costituita da numerosi faldoni. Ai faldoni dell’accusa ci sono da aggiungere anche quelli della difesa che ha svolto rispetto all’avviso di conclusione delle indagini che era stato notificato dalla Dda poco prima dell’estate, una intensa attività investigativa, ascoltando decine e decine di persone, tra Trapani, Roma e Palermo. La Dda però non ha cambiato strada ed ha imboccato quella del dibattimento. Sul tavolo i magistrati hanno posto i verbali dell’ultimo più importante dichiarante del trapanese, l’imprenditore Nino Birrittella, che ha riferito di particolari relativi alla campagna elettorale nazionale del 2001, quella che vide trionfare il centrodestra e D’Alì divenne sottosegretario all’Interno e lo restò fino al 2006. Birrittella affiancava il padrino Ciccio Pace nella cupola di cosa nostra trapanese, ed ha detto del sostegno della mafia alla campagna elettorale di D’Alì. Ma ancora ha anche fatto un passo indietro quando lo stesso sostegno sarebbe stato concesso dal precedente capo mafia, Vincenzo Virga, che in quel 2001 veniva arrestato dopo sette anni di latitanza. Appalti, acquisto di caserme da destinare ai carabinieri, come quella di San Vito Lo Capo, sarebbero vicende nelle quali la mafia avrebbe avuto il suo tornaconto e il senatore D’Alì si sarebbe occupato per garantire questo tornaconto.
Uno dei capitoli dell’impianto accusatorio è quello dei rapporti con imprenditori fortemente discussi, come l’imprenditore Francesco Morici, o ancora con imprenditori nel frattempo finiti in carcere con condanne definitive per mafia, come il valdericino Tommaso Coppola: è uno di quelli che si è molto bene raccordato con lui, ha reso dichiarazioni fermandosi proprio sull’ uscio dei rapporti tra mafia e politica. D’Alì però su questo versante si è difeso indirettamente (non è stato mai sentito dai magistrati, sebbene adesso lui, dopo l’avviso di conclusione delle indagini poteva chiederlo), “si dimentica – dice – che i rapporti politici portavano Coppola a sinistra, ma di questo non si parla. Io mi sono interessato a fare arrivare finanziamenti per la crescita di questo territorio, non per arricchire ora uno ora l’altro imprenditore, le dico di più, rifarei tutto quello che ho fatto”.
Un altro dei capitoli di indagine è quello relativa alla “cricca” che si sarebbe realizzata ai tempi dei lavori preliminari per rendere il porto di Trapani adeguato ad accogliere nel 2005 le barche a vela della Coppa America. Lì la mafia, lo dicono sentenze passate in giudicato, si infiltrò con le proprie forniture. Cemento, ferro, inerti. Propedeutica a non avere intralci sarebbe stata l’azione contestata anche al senatore D’Alì di avere “spinto” nel 2003 perché andasse via l’allora prefetto Fulvio Sodano, al suo posto giunse l’ex questore di Roma, Giovanni Finazzo che con D’Alì si mostrava apertamente come grande “amicone”. Il contrasto tra D’Alì e Sodano ci sarebbe stato all’epoca dell’intervento della prefettura a favore dell’azienda confiscata alla mafia Calcestruzzi Ericina.
Oggi il senatore Antonio D’Alì, a Palazzo Madama dal 1994, è presidente della Commissione Ambiente del Senato dal 2008, esponente berlusconiano dalla prima ora.
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