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Kabul dieci anno dopo

Di Gaetano Liardo il . Internazionale, Progetti e iniziative

«L’Afghanistan non è come ce l’aspettavamo». Così i rappresentanti della missione dei pacifisti italiani al ritorno da Kabul raccontano la loro esperienza. Dal 31 agosto al 5 settembre, infatti, una delegazione della Tavola della Pace, Libera, Coordinamento nazionale Enti locali per la Pace e Peaceful tomorrows, ha visitato la capitale afgana. Dieci anni dopo l’11 settembre e la devastante “guerra al terrore”. Una missione pensata come incontro con le realtà della società civile che, nonostante le distruzioni della guerra, provano a rialzare la testa. «Il nostro obiettivo – racconta Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della Pace – è stato quello di andare incontro alla gente, una cosa che gli occidentali presenti in città non fanno quasi mai».

«A Kabul ci siamo mossi a piedi – aggiunge – per cercare di capire la città. Abbiamo trovato un paese devastato dalla guerra, una città un cui non c’è una strada asfaltata. I segni dell’intervento per la ricostruzione non ci sono, non si vedono». Inoltre: «Nessuno ci ha detto di vedere o sperare in un futuro migliore». L’Afghanistan “liberato” dai taliban sembra non avere prospettive. L’economia è dissestata, il processo democratico è al palo e la stabilità interna non è mai arrivata. Gli “studenti di Dio” hanno ripreso le armi e i vecchi signori della guerra hanno ricominciato a fare quello che hanno sempre fatto: combattere. Il governo di Hamid Karzai è debole, corrotto e a stento riesce a controllare la capitale. La coltivazione di oppio è ritornata a livelli altissimi. «La produzione di oppio afgano – sottolinea Tonio Dell’Olio, responsabile di Libera Internazionale – è cresciuta esponenzialmente invadendo nuovi mercati. I proventi del traffico alimentano le fazioni in lotta».

«La corruzione – aggiunge – è presente, a vari livelli, in tutti gli strati della pubblica amministrazione». Nonostante tutto ciò, tuttavia, qualcosa sembra muoversi. «In condizioni così difficili – commenta Dell’Olio – la società civile è riuscita a creare delle piccole isole felici che dimostrano come gli afgani, messi nelle giuste condizioni, riescano a fare degli interventi di qualità». A Kabul sono presenti, infatti, associazioni giovanili, sindacati, istituti di ricerca, radio, centri di informazione, associazioni per i diritti delle donne. Una proliferazione di realtà “dal basso” che cercano di ricostruire un futuro per il proprio paese.

«In Afghanistan – aggiunge Luisa Morgantini ex vicepresidente del Parlamento Europeo – c’è una società civile estremamente articolata, capace di pensare al proprio futuro, che chiede soltanto di non essere abbandonata». O tradita. Tra le motivazioni che hanno spinto la comunità internazionale ad aggredire il regime dei taliban c’era quella di liberare gli afgani da un regime di arcaico. Si parlò di esportare la democrazia e con essa lo sviluppo. Tuttavia, la maggior parte dell’impegno internazionale è stato concentrato sull’aspetto militare. Democrazia, ricostruzione e sviluppo sono stati relegati ai margini. Cosa fare per non lasciare da sole le forze democratiche dell’Afghanistan? La risposta prova a darla Lotti, in otto punti. Primo, riaprire un dibattito pubblico sull’impegno italiano a Kabul. Secondo, contribuire a realizzare una strategia per l’intera regione basata sulla sicurezza umana. Terzo, definizione di un piano di ritiro del contingente italiano.

Quarto: «Destinare il 30% dei costi risparmiati dal ritiro (su un totale di 700 milioni di euro l’anno) alla promozione della sicurezza umana in Afghanistan». Quinto, riconoscere e dare giustizia alle vittime della guerra. Sesto, sostenere programmi di riconciliazione dal basso. Settimo, presenza non formale di rappresentanti della società civile afgana, ma anche occidentale, alla conferenza di Bonn. Ottavo, sostegno alla conferenza regionale di Istanbul del prossimo novembre. Otto punti per aiutare concretamente un paese devastato che ha voglia di rinascere.

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