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Alessandra Sgarella, l’ultima dei sequestrati

Di Lorenzo Frigerio il . Calabria, L'analisi, Lombardia

Per ovvie ragioni di privacy, non ci è dato di sapere con sicurezza se le è stato comunicato e, francamente, che l’abbia saputo o meno lascia il tempo che trova, adesso. Sarebbe consolatorio averne la certezza, ma non cambierebbe il triste epilogo della vicenda. È sicuramente singolare però che proprio poche ore prima della sua morte, Alessandra Sgarella, l’imprenditrice rapita nel 1997, abbia ricevuto in dono dalle forze dell’ordine la cattura dell’ultimo dei responsabili del suo sequestro, Francesco Perre. Il latitante è finito in manette in Calabria, fedele senza alcun guizzo di fantasia al cliché che vede il mafioso venire catturato nel suo territorio.

A soli 52 anni, la donna, che era ricoverata in una clinica alle porte di Milano, lascia la sua famiglia dopo una lunga malattia, alla quale non è stato certamente estraneo lo spaventoso choc subito per il sequestro di persona subito. Ricordiamo che l’imprenditrice venne prelevata dai suoi sequestratori l’11 dicembre del 1997 e, soltanto dopo nove mesi, rilasciata a Locri il 4 settembre del 1998. Nove mesi di supplizio per lei e per i suoi cari: la gran parte della sua reclusione la visse sull’Aspromonte, ma per alcuni giorni venne accertato che i suoi carcerieri la tennero nascosta alle porte di Milano, in quella Buccinasco che per anni è stata – e forse ancora è – territorio sicuro per i clan, tanto da venire soprannominata “Platì 2”.

In quei nove mesi, si disse e lesse di tutto a proposito del sequestro Sgarella, compreso il fatto che non poteva essere opera della criminalità organizzata, ormai dedita a traffici più remunerativi dopo l’introduzione del blocco dei beni. Il provvedimento introdotto negli anni in cui più grave fu la minaccia dei sequestri di persona servì di fatto da deterrente; congelate le ricchezze della famiglia del sequestrato, diventava impossibile o quasi pagare gli alti riscatti che consentirono ad intere cosche di accumulare il capitale necessario all’ingresso nel mercato delle sostanze stupefacenti.

Impossibile o quasi impossibile: proprio in merito al sequestro Sgarella, in più circostanze venne rilanciata l’ipotesi che il riscatto fosse stato pagato, magari estero su estero, proprio per evitare il blocco disposto dalla magistratura. E nella sentenza si legge che parte del sequestro venne pagato. I calabresi responsabili del sequestro avevano puntato gli occhi su Alessandra Sgarella, in ragione del fatto che all’epoca la donna era figlia del proprietario della Italsempione, una ditta di trasporti dal fatturato annuo di trecento miliardi di lire.

Ora che l’ultima delle vittime di quella terribile stagione ci ha lasciato ci si interroga sulla sottovalutazione che da molte parti venne fatta del fenomeno. L’idea che il sequestro di persona fosse un reato minore – e come tale non appannaggio della mafia, visto anche il divieto disposto da Cosa Nostra di farvi ricorso quanto meno in Sicilia – o l’idea che fosse, addirittura, il mezzo scelto da gruppi di disperati per vincere la povertà atavica cui erano condannati dal fatto di essere nati in determinati territori sono chiavi di lettura che impedirono di cogliere come, in un determinato frangente storico, le cosche scelsero la strada di rischiare molto per avere molto in cambio. Quando il risultato auspicato venne raggiunto – l’accumulazione di ingenti patrimoni utili ad avviare su larga scala il business del narcotraffico – i sequestri di persona cessarono di colpo.

Basta leggere il curriculum criminale di Francesco Perre per rendersi conto del fatto che i sequestri di persona furono un reato tipicamente di criminalità organizzata. Nella lista dei ricercati del Ministero dell’Interno, latitante dal 1999 e con una condanna a 28 anni da scontare proprio per la vicenda Sgarella, Perre si era dedicato a tempo pieno al business degli stupefacenti nell’ambito della cosca calabrese dei Barbaro. Tanto che l’uomo era ricercato dalla DDA calabrese proprio per associazione mafiosa e traffico di droga. E i carabinieri l’hanno sorpreso proprio mentre era intento ad innaffiare una piantagione di duemila piante di canapa indiana, collocata in un territorio compreso tra Bova e Palizzi Superiore, in provincia di Reggio Calabria.

Perre è l’ultimo a finire in carcere, prima di lui altri dieci componenti della banda erano già stati reclusi nelle patrie galere: un mix di esponenti dei clan attivi nel milanese e in Calabria. Per tutti loro vale una condanna definitiva da scontare, dopo la sentenza della Corte di Cassazione emessa nel novembre del 2003. Tutti assicurati alla giustizia grazie al lavoro di un magistrato come Alberto Nobili, oggi procuratore aggiunto di Milano e di una squadra di investigatori di razza, da Massimo Mazza a Francesco Messina, per finire a Carmine Gallo. Tutti memoria storica di una ‘ndrangheta che fu e che oggi, in Lombardia, si presenta sotto nuove sembianze.   

Link: in allegato la voce “Sequestro di persona” di Lorenzo Frigerio, pubblicata prima sulla rivista Narcomafie nel 2005 e riprodotta in abstract all’interno del “Dizionario di mafia e antimafia” (a cura di Manuela Mareso e Livio Pepino), EGA Edizioni, 2007

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