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Moro, la Storia che si rimargina
nel silenzio

Di Nando Dalla Chiesa* il . Liguria

La mano di una donna che stringe nella sua quella di un uomo prossimo al singhiozzo. Lei protettiva, lui quasi travolto dall’ emozione in pubblico. Lei si chiama Agnese Moro ed è figlia di Aldo Moro, lo statista democristiano rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel ’78. Lui si chiama Franco Bonisoli e ha fatto parte del commando che in via Fani rapì Aldo Moro “annientando” la sua scorta. Quelle due mani che d’improvviso si stringono furtive verso il basso sarebbero, se solo qualcuno la scattasse, una foto storica. Non c’è alcuna tivù a riprenderle. Ma al pubblico che affolla il cortile del Comune di Genova quel gesto non sfugge. Una folata di silenzio muto e commosso arriva fino al palco. I due sono in contatto da un anno. Lei non lo avrebbe mai pensato possibile. Ma un gruppo di volontari che sta lavorando sott’acqua per una riconciliazione vera -altra cosa dalla famigerata “soluzione politica”- alla fine li ha fatti incontrare.

Agnese ricorda il bivio tra la strada del rancore e quella cristiana dell’”amate i vostri nemici”. Parla di un uomo tenero e gentile che, prima che statista, “era mio padre”. Ridisegna il clima di quei mesi e accanto ai terroristi mette i partiti indifferenti, la stampa accecata dal mito della fermezza, gli intellettuali che sciabolavano giudizi su un uomo inerme. Evoca la zona grigia, “che rendeva più ampi i confini del partito armato”. Il colpevole è “chi ha premuto il grilletto”, precisa, perché ogni uomo è libero di scegliere. Ma ricorda, vuole ricordare, un paese rimasto a guardare. Perciò chiede che ora quel dramma diventi occasione per un ripensamento collettivo. Restituisce al pubblico il suo dolore, che le impedì per vent’anni di leggere gli scritti del padre. Che le ha impedito di trovare sollievo nelle condanne giudiziarie, perché “non hanno fatto tornare in vita la persona che amo”. Perché le sentenze, pur necessarie, non portano umanità. “Stare con lui invece mi dà qualcosa”, spiega indicando con gli occhi Bonisoli. “C’è un’umanità che ci unisce”, dice, “siamo due facce della stessa medaglia”.

Bonisoli ripercorre la sua vicenda per i più giovani. La clandestinità a diciannove anni venendo da una famiglia reggiana “religiosamente comunista”, il sogno di una società senza sfruttati, l’accettazione del rischio più alto per realizzarla. E il disastro delle vite colpite. Non ha nulla del brigatista televisivo che spiega il suo fallimento politico come un partito potrebbe spiegare la sconfitta elettorale. Ammette di avere “tanti debiti da pagare, forse infiniti”, racconta il rimorso per il dolore sparso e di non avere mai voluto scrivere lettere dal carcere ai familiari per lealtà, per non ottenere sconti di pena. Rievoca le figure che lo hanno aiutato in uno sforzo che è stato individuale, perché da un certo punto in poi le scelte collettive non si potevano più fare, perché “c’è sempre un tempo in cui ti suona la campanella della coscienza” e non è detto affatto che sia lo stesso per tutti. Tanti uomini di chiesa, dai coraggiosi cappellani delle carceri al cardinal Martini, anche se lui è rimasto laico, tutto sommato viene da una famiglia di mangiapreti. Il suo volontariato con i salesiani e il rimpianto che a quei tempi qualcuno non gli abbia proposto di farne nel Mato Grosso, “magari avrei fatto ospedali invece che danni terrificanti”. Il suo impegno, parlando con i giovani, anche delle carceri minorili, perché nessuno ricada più nella violenza, “i ponti per arrivarci purtroppo sono sempre aperti”.  La mano tesa da Agnese Moro lo aiuta a credere nel futuro. “Se c’è una possibilità di dialogo tra noi”, osserva, “allora mettiamo in crisi questa civiltà dello scontro e del rancore, anche sulle piccole cose”.

Agnese annuisce con la serenità dei giusti. Ha colto in lui “il rispetto per la nostra famiglia”. Dice che c’è un giusto, suo padre, che approverebbe questo suo percorso. Che sarebbe bello se una riconciliazione vera avvenisse nel nome di Moro. Il pubblico della Settimana Internazionale dei Diritti, che ha tenuto il fiato sospeso per un’ora e mezzo, si schiera con lei con un applauso lunghissimo.

* Articolo pubblicato su “Il Fatto quotidiano” – 13 luglio 2011
   www.ilfattoquotidiano.it

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