Una campagna forsennata
Contro la Procura di Palermo ed in particolare contro Antonio Ingroia, certamente uno dei suoi uomini di punta per professionalità efficienza e coraggio, si è scatenata una campagna forsennata. Il pretesto strumentale è il “caso Ciancimino”. Un caso certamente intricato e controverso (come lo stesso Ingroia ha ripetutamente ricordato: e non solo nell’infuriare delle polemiche), in ordine al quale possono perciò aversi valutazioni diverse.
Ma niente hanno a che fare con questa categoria gli insulti beceri, le aggressioni volgari e le bordate grossolane scagliate con l’intenzione di bastonare – sia mediaticamente che politicamente – onesti magistrati che hanno il solo torto di adempiere scrupolosamente i propri doveri istituzionali: doveri che comprendono anche quello di non essere “scaltri” voltandosi dall’altra parte ( per quieto vivere) se le dichiarazioni di un collaboratore “difficile” aprono scenari inquietanti ed oscuri: tutti da verificare con adeguati riscontri, certo, ma senza smettere di cercare la verità sol perché la strada da percorrere presenta difficoltà ed insidie. Invece, in quest’Italia che sta sempre più perdendo – insieme alla decenza – la capacità stessa di usare le parole secondo il loro significato corrente, c’è addirittura chi – calpestando prima di tutto il buon senso – ha osato sbraitare contro Ingroia, scagliandogli addosso la delicata richiesta di «tirar fuori l’articolo 289 codice penale (attentato ad organi costituzionali) che punisce con 10 anni di galera chi cospira contro lo Stato».
A ben vedere il copione è vecchio come il cucco. La storia della lotta alla mafia è piena zeppa di tecniche rinunciatarie poste in opera da chi preferisce non vincere. Queste tecniche comprendono la definizione della ricerca della verità come teorema o complotto;- l’insinuazione di un rapporto scorretto fra pentiti e inquirenti (una favola diffusa fin dai tempi del pool di Falcone e Borsellino: come dimenticare le pesanti ironie sui cannoli portati a Buscetta?);- la delegittimazione pregiudiziale dei collaboratori (cosa, inutile dirlo, ben diversa dalla doverosa cautela nella utilizzazione delle loro dichiarazioni):- fino alla brutale accusa a pubblici ministeri e giudici di costruire castelli accusatori strampalati per ragioni politiche al servizio di una fazione e ai danni di un’altra.
Ciò che – nel caso di Ingroia – è addirittura diventato ( nella torrentizia profusione di leggiadrie assortite) premessa per sparare accuse di “cospirazione politico giudiziaria” e di “calunnia di stato”. Viene alla mente (ed è risolutiva) una frase di Falcone a proposito delle difficoltà strutturalmente connesse ai problemi dei collaboratori di giustizia quando affrontano certi argomenti: difficoltà tali da far «sorgere il sospetto che in realtà non si voglia far luce sui troppi, inquietanti misteri di matrice politico- mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti».
Ma si consoli ( se può) l’ottimo Ingroia. Non è lui l’obiettivo principale. Gettano fango contro di lui per tirare la volata alla sedicente riforma “epocale” della giustizia. Tirare in ballo un magistrato molto noto e stimato per la sua irreprensibilità, inventandosi irregolarità e scorrettezze gravi, equivale a costruire”in vitro” argomenti tanto falsi quanto suggestivi per far passare la merce avariata di una riforma che ha come obiettivo evidente ( al di là della propaganda ingannevole, profusa senza risparmio di mezzi) quello di mettersi sotto i piedi il principio costituzionale dell’indipendenza della magistratura: costringendola di fatto a ad essere devota ed ubbidiente ai voleri della maggioranza politica del momento (di quale colore, va da sé, non importa) in spregio al principio della legge uguale per tutti.
Ed è per questi motivi che ristabilire la verità a proposito di Ingroia è anche difendere la qualità della democrazia. Esattamente come battersi contro chi invoca commissioni d’inchiesta per dimostrare che la magistratura è un’associazione a delinquere di carattere eversivo, o tappezza la città di manifesti osceni con la scritta” fuori le Br dalle Procure”.
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