Ha lasciato Parma per raggiungere Palermo: Massimo Ciancimino è ora recluso nel carcere Pagliarelli del capoluogo siciliano, in regime d’isolamento. Una tregua è prevista per il 10 maggio, quando dovrà comparire in aula, nel processo per la mancata cattura di Provenzano, che vede alla sbarra gli ex ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu. Intanto, le nubi addensatesi sopra di lui, fin dal giorno del suo arresto, incombono tuttora minacciose: dalle accuse di calunnia e truffa per le accuse di contiguità con Cosa Nostra rivolte al direttore del Dis Gianni De Gennaro, all’iscrizione nel registro negli indagati per la detenzione dell’esplosivo ritrovato nella sua casa palermitana, per finire con le nuove rivelazioni sul tesoro della sua famiglia: beni per un valore di circa 500 milioni di euro e nascosti all’estero con acquisizioni immobiliari e partecipazioni societarie.
Anziché cercare di capire cosa è realmente successo, si corre il rischio di gettare alle ortiche tutto il lavoro che in questi ultimi mesi è stato fatto per venire a capo delle trattative che Cosa Nostra avrebbe intavolato con rappresentanti delle istituzioni e culminata nella stagione di sangue compresa tra il 1992 e il 1993. Anziché plaudere all’iniziativa della magistratura che cerca di prevenire un possibile inquinamento delle prove, colpendo con un provvedimento restrittivo della libertà il suo principale testimone, si scatena una vera e propria caccia all’uomo, dove a finire sotto tiro è proprio chi rappresenta la giustizia e non l’eventuale colpevole del reato.
Un indecoroso crucifige! che ha come obiettivo la delegittimazione di un magistrato impegnato e coerente come Antonio Ingroia. Gli attacchi forsennati della stampa schierata con la maggioranza, le violente parole di Giuliano Ferrara lanciate in prima serata, dal pulpito concessogli dalla rete ammiraglia della Rai e le dichiarazioni bellicose di uomini politici vicino al premier rivelano, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, come Ingroia sia nel mirino da tempo, perchè ritenuto avversario irriducibile. Una profonda ostilità che vede un passaggio cruciale nel lontano novembre del 2002, quando nel corso del procedimento contro il senatore Dell’Utri, Berlusconi si avvalse, in qualità di Primo ministro, della possibilità di essere ascoltato come teste assistito a Palazzo Chigi, anziché presentarsi a Palermo. Ingroia ricostruisce l’episodio nel suo libro “Nel labirinto degli dei”, descrivendo il palese nervosismo che coinvolse tutti i protagonisti di quella strana seduta: «Silenzio. Lunghissimi minuti di silenzio. Il tempo sembrava essersi sospeso. Tutti gli occhi dei presenti erano puntati su di Lui, teso, i lineamenti contratti. Mi guardava. E io ebbi la sensazione che mi stesse fissando. Era come se avesse percepito il mio intervento più come una sfida che un appello. E sembrava che fosse tentato di raccoglierla quella sfida, di reagire, di rispondere».
Invece Berlusconi non raccolse la sfida, avvalendosi della facoltà di non rispondere e sprecando forse per sempre l’occasione di fare luce una volta per tutte sulle sue relazioni pericolose, che non sono certamente solo quelle femminili. Forse ci sbaglieremo, ma siamo convinti che l’accanimento personale nei confronti di Antonio Ingroia da parte di quanti intendono colpire una pericolosa “toga rossa”, macchiatasi del reato di lesa maestà, nasconda in realtà la preoccupazione dei problemi che al leader della maggioranza potrebbero venire dalla Procura di Palermo. Forse ci sbaglieremo, ma non saranno i processi incardinati a Milano – da Mediatrade a Mills, per finire alla vicenda di prostituzione che coinvolge Fede e Mora – a far dormire notti insonni al Cavaliere.
Per quanto riguarda le turbolenti notti di Arcore, quest’ultimo ha già ricevuto una sorta di assoluzione dall’opinione pubblica, soprattutto quella maschile, pronta a riconoscersi più negli stereotipi machisti del latin lover che in quelli rassicuranti del bravo pater familias. I processi, invece, per fatti di corruzione cadranno presumibilmente sotto i colpi inferti alla procedura dalla cosiddetta riforma della giustizia. E quindi le uniche accuse che, se provate, potrebbero causare seri danni al premier, potrebbero essere solo quelle di contiguità con i capitali dei boss mafiosi, risalenti all’inizio della sua scalata imprenditoriale, e le altre, ben più pesanti, di aver giocato in qualche modo un ruolo nella stagione insanguinata delle stragi, quella che ne precedette la discesa in campo. Ecco allora l’accanimento mediatico portato ai danni di Ingroia. Analogo tentativo venne esperito nei confronti di Caselli, quando a Cagliari si suicidò il giudice Lombardini, indagato per un possibile coinvolgimento nel sequestro Melis e per questo interrogato dai colleghi della procura siciliana. Si colse allora l’occasione di un tragico avvenimento per sparare ad alzo zero contro i magistrati di Palermo, accusati di essere responsabili del drammatico epilogo della vicenda.
Oggi si riattiva quella che Saviano ha chiamato la macchina del fango per colpire un giudice, colpevole solo di aver fatto il proprio dovere. Tanto che, inspiegabilmente, la prima commissione del Csm – quella che si occupa dei trasferimenti d’ufficio – annuncia l’intenzione di occuparsi dell’affaire Ciancimino. Anche se il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso sembra voler buttar benzina sul fuoco, al termine dell’incontro tra i magistrati di Palermo e Caltanissetta, quando dichiara che «si sono chiarite le diverse posizioni e ognuno ha avuto modo di esporre le proprie ragioni ma adesso è stata messa una pietra sul passato e si pensa solo a costruire il futuro delle indagini nel quale tutti si sono impegnati ad una scambio reciproco e spontaneo di tutti gli atti compiuti e da compiere».
Preoccupa, piuttosto, lo strano silenzio che circonda Ingroia, fatte le debite eccezioni ovviamente. Sarà forse questo isolamento che avverte intorno a sé ad aver spinto il magistrato, solitamente restio al proscenio, a prestarsi più del solito a richieste di interviste e apparizioni pubbliche e televisive?