In nome delle Terre del Sud
Il lavoro delle braccia che seminano e raccolgono, restituendo alla terra e al suo incessante lavorio la dignità di scrigno dell’essere e del sapere. Chi per la terra ha vissuto e chi è morto per liberarla dal latifondo, per lavorarla ascoltandone i ritmi e i bisogni, solcandola e attendendone pazientemente i frutti. Chi ha creduto, anche da bambino, di coltivarla un giorno da uomo libero. Tutti costoro hanno contribuito alla storia più semplice ma anche a quella più nobile del nostro Meridione. Persone che non hanno atteso la morte per incarnare degli ideali ma che dalla morte sono stati attesi nell’imprimere quegli stessi ideali nella nostra storia.
Giuditta Levato, uccisa il 27 novembre 1946 a Calabricata, nel basso crotonese oggi Sellia Marina in provincia di Catanzaro; Isabella Carvelli e Francesco Mascaro, cadono a Petilia Policastro, nella provincia crotonese, il 13 aprile 1947; i piccoli Vincenzo La Fata e Giuseppe di Maggio, rispettivamente di otto e sette anni, tra le undici persone uccise a Portella della Ginestra, in provincia di Palermo, il primo maggio del 1947; l’anziano contadino Matteo Aceto, ucciso a Isola di Capo Rizzuto il 28 ottobre 1949; Francesco Nigro, Giovanni Zito e Angelina Mauro, morti a Melissa, nel marchesato crotonese, il 29 ottobre 1949. Cosa accadde dopo queste sanguinose lotte agrarie nel meridione d’Italia? La Cassa del Mezzogiorno e l’Opera Sila. Interventi, tuttavia, non sufficienti per innescare un’economia agricola virtuosa in Calabria. Ancora oggi il Sud patisce la carenza di logica cooperativa tra gli agricoltori, oltre che un endemico deficit di risorse.
Nell’occasione che celebra il lavoro non come mero strumento di sostentamento ma come valore e come diritto, è necessario, oltre che doveroso, ricordare chi per riscattare questo diritto, legato profondamente alla terra per la gente del Sud, ha speso la vita anche perdendola. Ha un sapore amaro il Primo Maggio a Portella della Ginestra in provincia di Palermo, abbracciata dai comuni di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, dove nel 1947 morirono, secondo fonti ufficiali, 11 persone e 27 furono ferite. Una sparatoria interruppe la riprese dei festeggiamenti per la Festa del Lavoro, bandita dal regime fascista, e per la vittoria alle elezioni regionali del Blocco del Popolo che raccoglieva le sinistre che avevano sostenuto le lotte contadine. Un sapore amaro che si inasprisce attorno a questa vicenda che rivela, lasciando tuttavia in ombra la verità dei fatti, una Sicilia oppressa dai signorotti, presidiata dai mafiosi, afflitta dal banditismo nero in un contesto politico locale e nazionale fortemente imperniato sulla divisione tra blocco occidentale egemonizzato dagli Stati Uniti e blocco sovietico comunista. La strategia internazionale?
L’accordo di Yalta, contenimento del potere rosso e la guerra fredda. La specificità di questo drammatico episodio è rappresentato dalla forte connotazione politica della lotta contadina in Sicilia e dalle fitte relazioni mafiose che caratterizzarono il latifondismo e il banditismo siciliano e che poi si infiltrarono nel quadro istituzionale conservatore e anticomunista.
La prima verità sulla strage di Portella fu quella della responsabilità dei proprietari terrieri, mafiosi e conservatori che avevano più volte inveito contro la sinistra che aveva sostenuto la lotta agraria, con un popolo che puntava il dito contro i Terrana, gli Zito, i Brusca, i Romano, i Troia, i Riolo-Matranga, i Celeste. In questa cornice, furono eseguiti 74 arresti eccellenti. Ma la matrice politica denunciata dal segretario regionale comunista Girolamo Li Causi sarebbe stata poi smentita dal ministro Scelba e dalla tesi dell’isolato fatto di delinquenza ideato ed eseguito da Salvatore Giuliano. Seguirono il rilascio delle persone mafiose arrestate e un’inchiesta giudiziaria, giudicata superficiale, che si concentrò su Giuliano e sulla sua banda (responsabili poi dei successivi attentati del 22 giugno nella Sicilia occidentale).
Tutto ciò senza considerare l’ipotesi di un suo ruolo di mero esecutore e lo scopo politico della strage, secondo Li Causi, commissionata, forse solo a scopo intimidatorio, da personalità politiche indispettite dal successo del Blocco del Popolo in Sicilia. Tutto ciò nonostante le dichiarazioni dell’imputato per la strage Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, che aveva annunciato la presenza di mandanti politici per l’eccidio; tutto ciò nonostante una lettera dove si leggeva del conferimento di mandato allo stesso Giuliano della strage di Portella da parte del monarchico Marchesato e dei costanti contatti della banda con gli altri monarchici Alliata e Cusumano Geloso. Uno scenario aggravato dagli omicidi di Salvatore Giuliano e di Gaspare Pisciotta negli anni Cinquanta, che resero impossibile una ricostruzione dettagliata dei fatti. Una tesi particolarmente recente riconduce i fatti a presunti interessi dei servizi segreti americani. Alla luce degli avvenimenti successivi che videro nel 1948 l’epoca centrista, con la Democrazia Cristiana affiancata dai conservatori a guidare il paese e la Sinistra all’opposizione, se gli obiettivi della strage fossero stati realmente quelli, plausibili, di colpire la classe contadina sostenuta dalla Sinistra e di condizionare un quadro politico regionale, che con la vittoria del Blocco del Popolo si delineava in contro-tendenza con il quadro nazionale e internazionale, essi sarebbero stati perseguiti. Con tutte le conseguenze del caso. Tra queste anche la conquista da parte di Cosa Nostra in Sicilia del ruolo di presidio anticomunista accanto alla Dc al governo.
Ma torniamo alcuni anni indietro, a quando maturò la strage di Portella della Ginestra che non fu l’unico fatto di sangue per i contadini del Sud. Siamo nell’Italia divisa tra la Repubblica di Salò e gli Alleati. Quel sapore amaro dei contadini uccisi a Portella non ha risparmiato la Calabria, anch’essa insanguinata dalle lotte agrarie affogate nel sangue. Siamo nel decennio del 25 aprile 1945, in cui il paese sarebbe stato liberato dalla Repubblica di Salò per mano dei Partigiani della Resistenza, antifascisti, comunisti, socialisti, cattolici. Siamo nel decennio del referendum repubblicano e della Carta Costituzionale, ma siamo anche nel decennio in cui la politica latifondista e il banditismo continueranno a tracciare la questione Meridionale al Sud, scenario di accese lotte contadine per la libertà dallo sfruttamento e per il diritto a coltivare liberamente la terra. Uno scenario in cui da tempo maturava, anche in Calabria come in Sicilia, l’embrionale dimensione agricola della mafia, oggi holding internazionale del crimine. E’ il tempo della donne in lotta e della giovane madre di due figli e bracciante nei campi, Giuditta Levato, uccisa con un colpo di arma da fuoco. Nel suo ventre cresceva un altro figlio di quell’Italia vicina alla Democrazia e alla Costituzione.
Era il novembre del 1946, quando a Calabricata, nel basso crotonese, oggi comune di Sellia Marina in provincia di Catanzaro, il campiere del barone Pietro Mazza spara sulle contadine accorse per proteggere il seminato dalla follie dei buoi. Nel tentativo di difendere il proprio diritto al lavoro e al raccolto, Giuditta Levato è morta nei campi. Emblema del riscatto sociale che in quello spaccato storico vide protagonista il popolo contadino tra le colline del Marchesato e le montagne della Sila. Giuditta Levato incarna il movimento di resistenza del Sud dopo il rallentamento della ridistribuzione delle terre avviata con i decreti Gullo, approvati nel 1944 allo scopo di ridurre lo sfruttamento dei proprietari terrieri, assicurare continuità al lavoro dei contadini e favorendo la distribuzione degli stessi terreni attraverso la creazione di cooperative per le aree rimaste incolte. Un progetto politico che dava speranza ai contadini, la cui storia di lotta cominc
ia oltre due secoli prima.
La storia del diritto alla terra negato al Meridione ha inizio, infatti, nel 1700 e si acutizza dopo l’Unità d’Italia quando i contadini cominciano a rivendicare la distribuzione delle terre e ad occuparle come forma di protesta contro un latifondismo già anacronistico e una crisi economica, politica e sociale che rendeva periodicamente necessarie le occupazioni per particolari semine nei mesi primaverili, al fine di soddisfare il fabbisogno familiare. Tale forma di rivendicazione, che attraversò il periodo fascista, veniva attuata non solo in Calabria ma anche in Sicilia, in Puglia, in Basilicata, nel Lazio meridionale. Una crisi dunque diffusa. La lotta contadina si sarebbe placata con l’opera di Fausto Gullo, avvocato catanzarese, partigiano e costituente, ministro dell’Agricoltura del secondo governo d’Unità Nazionale retto da Pietro Badoglio, nel governo Parri, Bonomi e ministro di Grazia e Giustizia nel governo De Gasperi, i cui decreti avevano invertito la tendenza di tutelare unicamente i possidenti terrieri. Ma la riforma del parlamentare comunista calabrese venne nel 1946 ritrattata e i decreti ritirati dal ministro dell’Agricoltura del governo De Gasperi, Antonio Segni, latifondista di origini sarde. Fu allora che i tumulti delle lotte contadine ripresero ad agitare il Sud.
Siamo nel 1946. I fatti di sangue e le proteste contadine di quegli anni scossero il governo al punto tale da indurlo ad intervenire. Lo stesso Antonio Segni e il presidente del Consiglio dei Ministri, Alcide De Gasperi, divennero promotori nell’aprile del 1949 di una proposta di frazionamento delle terre abbandonate, circa 37 mila ettari, da cui venivano esclusi i grandi proprietari terrieri. La proposta, passata al vaglio della Commissione Interministeriale, fu insabbiata per le pressioni esercitare dalla Confagricoltura.
Ripresero allora, nell’ottobre di quell’anno, le proteste dei contadini con i 6000 ettari occupati nel crotonese e a cui il ministro dell’interno Mario Scelba rispose con arresti e uso della forza. Anche in Sicilia sono i tempi delle lotte dei braccianti; i tempi i in cui Pio La Torre, di cui lo scorso giorno ricorreva il ventinovesimo anniversario del suo assassinio – Palermo 30 aprile 1982 – per mano di Cosa Nostra, avrebbe guidato i contadini nell’occupazione delle terre per poi essere incarcerato nel 1950, assumere poi l’incarico di segretario regionale della Cgil e del Pci siciliano e proporre da parlamentare strumenti legislativi di contrasto alla mafia (reato proprio di associazione a delinquere di stampo mafioso – art. 416 bis c.p. – e confisca dei beni).
Intanto in Calabria, a Melissa, i contadini avevano occupato il grande feudo di “Fragalà” , sfruttato in epoca fascista dalle famiglie altolocate crotonesi dei Polito e dei Berlingeri e poi abbandonato. Una situazione di abbandono che riguardava anche altre diverse migliaia di ettari di terreni incolti ma di proprietà di conti baroni e conti che, in un contesto di povertà dilagante della classe contadina pretendevano di utilizzare immensi appezzamenti terreno solo per il pascolo e la caccia.
Erbacce e filo spinato laddove il lavoro onesto e faticoso dei contadini avrebbe potuto offrire frutti, risposte alla fame e ricchezza autentica alla nostra regione. Fu qui che maturò l’eccidio di Melissa. Il 29 ottobre del 1949, la polizia cominciò a sparare contro i contadini impegnati dall’alba nel lavoro delle terra. Alla vista delle armi, tutti al centro del feudo di Fragalà per battere le mani fino a poco prima impiegate nella semina delle fave. La risposta fu il fuoco, la morte di Francesco Nigro, Giovanni Zito e Angelina Mauro, ventiquattrenne deceduta presso l’ospedale civile di Crotone dopo alcuni giorni, e il ferimento di quindici contadini.
Una pagine di storia che, come altre, fu al centro di ipotesi politicamente etichettate; invece, secondo alcuni, a Melissa c’era la tutta la gente sopravvissuta alla guerra, che per vincere la miseria non ha più imbracciato le armi ma la zappa e che rivendicava il diritto di lavorare la terra. Una nuova lotta per la sopravvivenza. Tra questi anche il giovane Francesco Nigro, prigioniero in guerra, poi tornato in Calabria per lavorare.”Mio figlio era libero!” raccontava il padre Peppino.
E non poteva che essere vero, perchè solo chi è libero ha il coraggio di lottare onestamente per la libertà dalla fame, dal bisogno, dallo sfruttamento. Per la dignità. In nome delle terre del Sud.
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