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O silenzio o morte

Di Norma Ferrara il . Internazionale

Il Messico è oggi, insieme a Honduras e Pakistan, il paese più pericoloso al mondo per i giornalisti. Nel 2010 ne sono stati uccisi 14 negli ultimi 10 anni. Nel Paese – dilaniato da una guerra senza precedenti tra i cartelli del narcotraffico – minacce, aggressioni, sequestri, intimidazioni contro gli operatori dell’informazione sono all’ordine del giorno. Chi osa scrivere di narcotraffico, chi ne indaga i legami con la politica e le istituzioni, chi denuncia la corruzione e l’impunità dilaganti, lo fa a rischio della propria vita. Al Festival internazionale del giornalismo a Perugia se n’è parlato insieme ai giornalisti Cynthia Rodríguez, Malcolm Beith, Gennaro Carotenuto e Anabel Hernández, giornalista messicana autrice del libro “Los Señores del Narco”, in un dibattito moderato da Cecilia Rinaldini del Giornale Radio Rai.

Dal 2006 ad oggi le vittime della violenza dei narcos sono state 43 mila, 35mila ufficiali, 5.000 desaparecidos. Ben il 98 percento dei crimini resta impunito. Questo indica che c’è un livello di corruzione che ha raggiunto tutti i livelli istituzionali. I giornalisti che decidono di rimanere per raccontare, rischiano in prima linea. Anabel Hernández  è una di loro. Fa la giornalista da diciotto anni, autrice di denunce fra narcotraffico e collusioni con istituzioni, polizia. E’ stata minacciata di morte, e l’ordine, secondo alcune sue fonti, è partito proprio da uomini del Governo. Accanto a lei si è stretta la società civile internazionale.

Ma in Messico è ancora silenzio e paura. Ha scritto un libro nel quale si fanno i nomi e cognomi di centinaia di persone corrotte. «Sono qui in Italia e sto raccontando grazie a Libera, istituzioni, associazioni, racconto quello che sta accadendo in Messico – dichiara la Hernàndez. Il narcotraffico è l’industria più globalizzata del mondo. Non si tratta di droga ma di molto di più» .«Le istituzioni in Messico, a tutti i livelli, e i narcos – afferma – sono quasi una sola cosa». E’ il denaro a fare da collante, spiega la giornalista. Accanto alla Hernandez, Cynthia Rodriguez, inviata in Italia per un giornale messicano, autrice di un libro nel quale racconta i legami fra la ‘ndrangheta e i cartelli messicani, racconta: «Per ogni grammo che si sniffa a Milano si uccido persone in Centro America. Sino al 2011 hanno seppellito 8800 persone. Il 36% dei morti avevano meno di quarant’anni».

Accanto alle giornaliste messicane,  Malcolm Beith e Gennaro Carotenuto. Il primo è un giornalista americano, autore di un libro sulla latitanza di quello che definisce “l’Ultimo narcos” (Il Saggiatore), El Chapo Guzmán. Un viaggio – inchiesta sulle orme dell’ultimo grande “ricercato” dallo Stato e forse protetto dallo stesso. Carotenuto, storico e docente universitario, ha definito El Chapo il più moderno degli imprenditori neoliberali. «Gusman Chapo è l’ imprenditoria neoliberale nella sua essenza – dice Carotenuto – in una società in cui l’ unico valore spendibile è il profitto economico». Un intenso dibattito quello sul Messico e l’informazione nel quale emergono le responsabilità della politica. La Hernandez parla di «falsa guerra contro il narcotraffico».

Proprio nella sua inchiesta la giornalista messicana ha scoperto che c’è una area del Governo che protegge i cartelli di Sinaloa. «E’ una guerra fra narcotrafficanti – chiosa – non contro di loro». Ma la Hernandez e la Rodriguez raccontano anche di un risveglio della società civile. A Libera guardano come un riferimento per trasformare il dolore dei numerosissimi familiari delle vittime dei narcos in impegno concreto per ricostruire il tessuto sociale e democratico di una Paese in ginocchio.

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