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Restiamo umani, oggi più di ieri

Di Rosanna Picoco* il . Internazionale

Tante, troppe, sono state le parole in questi giorni. Forse ci sarebbe bisogno di un po’ di silenzio, il silenzio che rispetti la morte di un uomo. Ma questo non era quello che volevi Vik. Le parole erano le uniche armi che Vittorio Arrigoni sapeva usare e avesse mai usato. Parole sussurrate, scritte, urlate. Erano le sue parole a colpire, a ferire perché erano parole di verità. E allora si, è vero: non eri un pacifista, perché  eri capace di fare male raccontandola verità, dando voce a chi non l’aveva. Essere pacifisti, però, non vuol dire rimanere inermi e indifferenti. E tu hai sempre dimostrato coraggio nel portare avanti le tue idee, perché avevi deciso di stare dalla parte dei più deboli. Tu eri l’unico italiano rimasto durante i bombardamenti di Piombo Fuso, rifiutandoti di lasciare la Striscia per raccontare al mondo quello che stava avvenendo.
Era il 23 agosto del 2008 il giorno in cui ti ho conosciuto. Tra migliaia di palestinesi, sulla stretta banchina del porto di Gaza City, aspettavamo l’arrivo delle due imbarcazioni del Free Gaza. Ero lì ad accoglierti. E poi la sera in  cui sono tornata a Gaza nell’aprile del 2009, dopo Piombo Fuso, eri stato tu ad accogliere me. Con la tua risata forte, i tuoi occhi da sognatore che hanno sempre continuato a brillare di quella luce che hanno solo le persone che credono profondamente negli ideali di libertà e  giustizia. E’ stato il limoncello che ti avevo portato dall’Italia a farci diventare amici. Le notti passate a parlare avvolti dal fumo della tua pipa nel tentativo di sfuggire all’orrore che quotidianamente vivevamo. Dovevo sempre mandarti via di forza, perché ti piaceva raccontare. Amavi la vita, ma eri disposto a morire per ciò in cui credevi.
Tante volte ci siamo scontrati, non eri una persona che poteva piacere a tutti, la forza delle tue passioni spaventava. Ma eri un uomo vero. Eri consapevole che avresti potuto morire, questo per rispondere a chi ti accusa di essertela andata a cercare. Ma i tuoi assassini non hanno avuto neanche il coraggio di farlo nel tentativo di fermarti durante una delle tue azioni. Lo hanno fatto di notte, al buio, perché Gaza vive al buio a causa dell’assedio che impedisce alla centrale elettrica di funzionare. Hanno cercato di toglierti dignità anche nella morte. Ma non ce l’hanno fatta. Perché chi ti conosceva o anche solo seguiva il tuo lavoro sa che persona sei. Questo è  il momento di ristabilire la verità, quello per cui hai perso la tua giovane vita.
Volevi che con la tua morte si tornasse a parlare di Palestina e del milione e mezzo di persone che vivono nella Striscia, e di cui tu facevi parte. C’è chi in queste ore ti accusa di esserti unito alle Brigate Al – Qassam, il braccio armato di Hamas. Ci sono anche coloro che dicono che eri strapagato. Che eri solo un fanatico estremista. Chi semplicemente dice che non eri un pacifista. E’ giusto che queste persone sappiano che tu non eri pagato da nessuno, che tutto quello che guadagnavi grazie ai tuoi articoli e al tuo libro veniva devoluto interamente al Palestinian Center for Democracy and Conflict Resolution, ai bambini traumatizzati dalla guerra che tu tanto amavi e che ti adoravano.
E’ giusto che sappiano che tu rischiavi la vita tutti i giorni per permettere ai contadini di lavorare la propria terra e ai pescatori di uscire in barca. Perché a Gaza la sveglia ogni mattina te la danno le bombe lanciate contro i pescatori, ai quali è vietato allontanarsi per più di tre miglia, nonostante gli accordi di Oslo prevedano che lo spazio marittimo territoriale  sia di venti miglia. Mi ricordo ancora la sera in cui tornasti a casa felice perché eravate riuscite ad allontanarvi di 15 miglia. La tua gioia nasceva dal fatto che quel giorno i pescatori erano riusciti a riempire le reti di pesce come non succedeva da anni. Eri felice per loro.
Ti ho accompagnato una volta al confine, sui campi di prezzemolo. Quella giornata non la dimenticherò  mai. I mitra dei soldati israeliani puntati verso di noi, a poche centinaia di metri. Sono scappata via subito, avevo paura. Paura, perché  laggiù la vita ha poco valore, perché quando credi di aver visto il peggio, accade sempre qualcosa che ti fa ricredere, di ancora più terribile. E ho continuato a pensare che tu, e gli altri volontari dell’ISM ma soprattutto i contadini palestinesi, vivono tutti i giorni con questa paura. Avevi visto con i tuoi occhi l’inferno. Ma eri capace ancora di giocare come un bambino e di immaginare un mondo migliore. E’ questo che ti dobbiamo: costruire un mondo in cui il rispetto e la dignità per la vita vengano prima di qualsiasi cosa.
Restiamo umani, oggi più  di ieri

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