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L’appello di don Ciotti: «Non smantellate leggi preziose». Nel nome dei 1.101 morti di mafia

Gian Antonio Stella il . Diritti, Mafie, Memoria, Sicilia

Trapani. I 30 anni di Libera. L’appello di don Ciotti nel giorno del ricordo delle vittime della criminalità organizzata.

«Ircu, arcu, orcu, / e ‘ppi na fogghia di zuccu tortu / unn’appi né ircu né arcu né orcu». Secondo lo scrittore Antonino Rallo, racconta Adriano Sofri nel libro Reagì Mauro Rostagno sorridendo, dedicato al sociologo torinese che sfidò con la sua generosità e la sua intelligenza la mafia e fu ucciso nel 1988 nel trapanese dove aveva scelto di vivere per «vedere ingrigirsi la propria barba e magari nascere i propri nipotini», solo lo scongiuro su citato può tenere a bada il «fantasma di di Michele in via dei Corallari».

Il quale «era un turco fatto schiavo e poi lasciato morire di fame dai padroni» e divide con una misteriosa «suora di via Garibaldi» il ruolo principale tra i fantasmi di «Ciàpani», come il giovane regista Marco Bova ribattezzò in un film la sua città così come Trapani suona all’orecchio nel dialetto locale e spiegando: «Ciapani è Trapani senza marketing».

Sono molti di più, in realtà, i fantasmi di questa antica e bellissima città che deve il nome greco di Drepanon alla forma a falce del suo porto. Decine e decine, 38 solo in città nei tempi recenti, tra quelli falciati dalla mafia i cui nomi sono stati ricordati ieri, uno ad uno, tra i noi letti in una piazza Vittorio Emanuele invasa da sole, in chiusura del corteo della Giornata della Memoria e dell’impegno contro le mafie per i 3o anni di Libera, l’associazione delle associazioni fondata nel 1995 da don Luigi Ciotti.

Uno ad uno, nome per nome. Perché l’idea stessa della manifestazione, ha ricordato il prete veneto-piemontese padre del Gruppo Abele nella cerimonia prima della veglia religiosa coi parenti delle vittime della mafia, della camorra, della `ndrangheta e altre mafie del mondo (inclusa quella corsa, denunciata da un amico del militante nazionalista Maxime Susini fatto fuori nel 2019) nacque dalle lacrime di Carmela, la mamma di Antonio Montinaro, uno degli agenti ucciso a Capaci il 23 maggio 1992 con Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i colleghi poliziotti Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Fu durante un ricordo funebre: «Perché non dicono mai il nome di mio figlio?”», sospirò. Aveva ragione. Tutti parlavano di Falcone e della moglie e dei “giovani della scorta”… Ma lei voleva sentire il nome di suo figlio. Perché il primo diritto di ogni persona è venire chiamato per nome. Non parliamo di numeri, pratiche, utenti… Persone. È da lì che nasce la giornata della memoria: occorre ricordare tutti con la stessa forza, la stessa dignità». Ed ecco i gemellini Giuseppe e Salvatore Asta, che il 2 aprile 1985 furono uccisi a sei anni con la mamma Barbara Rizzo, che li stava accompagnando a scuola, dallo scoppio di una bomba a Pizzolungo destinata al magistrato Carlo Palermo.

E l’agente di custodia Giuseppe Montalto, assassinato solo perché aveva intercettato nel carcere dell’Ucciardone un «pizzino» recapitato in cella a boss mafiosi. E la guardia forestale Gaspare Palmeri morto con Stefano Siragusa nell’agguato a un amico coinvolto in una faida al ritorno da una partita di calcetto. E il magistrato in pensione Alberto Giacomelli, mai perdonato per aver disposto il sequestro di beni appartenenti a familiari di esponenti mafiosi.

Uno dei temi centrali (fin dalla raccolta d’un milione e mezzo di firme per ottenere la legge) nelle trentennali battaglie di Ciotti oggi preoccupatissimo dai progressivi «ritocchi» che allentano le norme: «Il grande problema del nostro paese è la corruzione. Invece vedo giorno dopo giorno il tentativo di smantellare leggi preziose per individuare i “reati spia” della presenza mafiosa. Vedo la cancellazione dell’abuso di ufficio, il depotenziamento del reato di traffico di influenze illecite, la liberalizzazione del sistema degli appalti, gli ostacoli crescenti al lavoro della Corte dei conti…»

Non finiva mai, letto uno dopo l’altro al microfono sul palco da centinaia di testimoni più o meno noti, l’elenco dei morti ammazzati in Italia.

È aperto dal nome di Giuseppe Montalbano, assassinato il 3 marzo 1861, quattordici giorni prima della proclamazione dell’Unità, a Santa Margherita Belice, ai confini tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani, per «aver offerto sostegno ai contadini nella rivendicazione di terre pubbliche usurpate». E giù giù fino ai morti di questi ultimi anni. E neanche tutti perché, «un’altra vergogna», non esiste una banca dati con le persone uccise dalle mafie: è costruita giorno dopo giorno da Libera…

E via via che si accavallavano i nomi compresi i più noti da Pio La Torre a Rosario Livatino, da Carlo Alberto dalla Chiesa a Paolo Borsellino, a chi conosce un po’ la storia di Trapani pareva di vedere il vento di primavera invocato da don Ciotti con le parole di Fabrizio De André («Voi non potete fermare il vento / gli fate solo perdere tempo») portar via le ombre dei fantasmi storici di una terra difficile.

Qui il giudice borbonico Pietro Calà Ulloa, spiega il volume Nascita della mafia di Salvatore Bugno, definì per primo cosa fossero le consorterie mafiose. Qui la massoneria deviata germinò un’infinità di Logge dai legami ambigui. Qui la politica è scesa a patti con mondi inconfessabili al punto che uno dei padroni della città, il senatore Antonio d’Ali (i cui antenati furono così potenti da mettere in fuga col loro veliero uno scibecco barbaresco) è oggi in galera. Qui Matteo Messina Denaro riuscì per decenni a muoversi liscio come un pesce nell’acqua.

Qui il pm Gaetano Paci denunciò il verminaio dello stesso palazzo di giustizia nelle indagini sull’omicidio di Rostagno: «Troppe insufficienze investigative, omissioni, sottovalutazioni».

Tutto spazzato via dalle brezze primaverili della grande manifestazione di ieri? Occhio alle ebbrezze, diffida lo stesso Ciotti.

E dopo aver ricordato l’intervista a Mauro Rostagno (è su YouTube: agghiacciante) di un’altra grande a donna, Saveria Antiochia, madre di quel Roberto ucciso con Ninni Cassarà perché volle fino all’ultimo stare accanto al commissario esposto alle vendette mafiose, spiega che «la ‘ndrangheta calabrese è presente oggi in cinque continenti e in 42 nazioni del mondo» e la stessa mafia ha colpi duri ma «nel codice genetico dei mafiosi c’è un imperativo, rigenerarsi».

Guai ad abbassare la guardia. Tanto più nei dintorni della cattiva politica.

Fonte: Corriere della Sera

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