Banalità del bene e vecchia Europa
Scoppia la guerra, salgono le Borse. Dimenticato il Giappone. La guerra fa volare i listini. Cernobyl è in pieno svolgimento. Ma sta nelle ultime notizie. “Terremoti punizione di Dio, come a Sodoma e Gomorra”. Di tutte queste notizie (moderno, postmoderno, medioevo) non è che il Sistema non vi informa: il Sistema non occulta più quasi niente. Ma ne nasconde il contesto, le affoga nel flusso indistinto del villaggio globale. Perciò, concretamente, ve le sta nascondendo. Al tuo bambino, non a un bambino qualunque dall’altro lato dello schermo, cominciano ad avvelenare il latte, nella “normalità”. La guerra è soldi, non nei regimi imperiali dell’Ottocento ma ora, nel soffice lieve mondo dei Nintendo e degli i-Pad. E Galileo Galilei (di “punizione di Dio” parla il vicecapo degli scienziati italiani, De Mattei del Cnr) se tornasse passerebbe i suoi guai anche oggi. E tutte queste cose succedono, ma ormai quasi nessuno ci fa caso.
E’ urgentissimo, è anzi la cosa più urgente e più vitale di tutte, ripristinare almeno un minimo di informazione. L’informazione non esiste più, è quasi tutta infotaiment o rumore di fondo. Oscura senza mentire apertamente, mescolando accortamente le priorità e i contesti, agendo cioè non più (come una volta) con la censura ma con una compatta egemonia culturale. (Certo, la censura c’è ancora: internet alla cinese è il sogno di tutti i governi, nostro compreso. Ma non è più essenziale).
Il Grande Fratello ora è una cosa “simpatica”, da “consenso”; quello vecchio di Orwell, in confronto, era primitivo. Ma questo funziona assai meglio, ci separa ancor più dal mondo vero, illudendoci di starci dentro. I contenuti, in altri termini, sono sempre più “loro”. In questa situazione non è più la singola notizia strappata, lo scoop, che fa la differenza; né il giornalista singolo può illudersi di servire a qualcosa. Se scopre una verità, lo applaudono e gliela usano (Saviano è un esempio) nel contesto loro. Controllando il contesto, tutto il resto – al massimo – diventa fiore all’occhiello. Vi mostrerei – se fossi Philip Dick – il guerriero apache che corre disperatamente contro il fortino, brandendo il suo arco e le frecce, con sovrumano coraggio; e a sua insaputa lo riprende una webcam, lo mette in rete, e un regista lo monta – a sua insaputa – nella fiction del Wild West che va in onda ogni sera su Fox: “che romantici gli indiani!”. E cade anelante ai piedi del fortino, felice di aver scagliato un’ultima freccia piumata, mentre negli schermi tv la sua figura ansante già sfuma nello spot del McDonald che chiude la puntata.
Non basta essere giornalisti, bisogna fare i giornali. “Giornale” oggi è una parola larghissima, che va dall’Asahi Shinbun (il più grande quotidiano del mondo, che decontestualizza dodici milioni di giapponesi al giorno) all’ultimo filmato di Youtube, passando per tutti i modelli di media vecchi e nuovi (compreso il nostro), senza che ci sia più una tecnologia egemone a dargli un senso. “Giornale”, oggigiorno, è essenzialmente un contesto. Che per noi è umanistico, per gli altri è commerciale. “Ucuntu” (o un raduno di Libera, o un coro alpino) è un esempio di contesto. “Repubblica” (o una pubblicità di McDonald, o un master in economia aziendale) un altro. I primi son molto piccoli, “ininfluenti”; ma hanno radici umane. I secondi sono (qui ed era) egemoni; ma sono dei prodotti industriali. Ma nella storia è successo molte volte che dei contesti piccoli, “isolati”, siano alla fine confluiti in un contesto nuovo, generale. Questo è il nostro lavoro. Non diamo (solo) informazioni; apriamo soprattutto spiragli su qualcosa che intuiamo oscuramente, di cui sappiamo solo che è molto grande – e che è già in noi. Per questo crediamo tanto nella rete – tanti contesti piccoli che confluiscono in un fiume solo – e nelle tecnologie, che ci danno la possibilità concreta ed economica di diffondere dappertutto questa idea. Non si è mai data, nel corso della storia, una tale occasione. Non la possiamo sprecare.
Così, nelle modeste cose che ci tocca ogni giorno di fare, non deve mai smarrirsi questa prospettiva. A Catania – ad esempio – noi lottiamo in questo momento sia per salvare le povere scuole dei bambini di quartiere (il Gapa, l’Experia, gli scout di Librino) che per imporre ai potenti di ritirare le mani dal Palazzo di giustizia, che di giustizia dev’essere e non di potenti. Abbiamo storie lunghissime, su entrambi i fronti; il Gapa di San Cristoforo lavora lì da oltre vent’anni; di una Procura estranea alla città dei poteri un uomo come Scidà parlava già – perseguitato già allora – da metà anni Novanta. Due lotte diversissime, di persone diverse, tipicamente “locali”. Eppure, vivendole insieme e collegandole alle decine di analoghe, alle centinaia e alle migliaia di persone che in qualche parte d’Italia si battono per esse, otterremo alla fine (e questa è l’unica via realistica, non certo quella giocata nei palazzi) qualcosa di largo e generale; intravediamo un’Italia ben diversa; un contesto.
Esseri umani disperati, a migliaia; la fame, la paura. La soluzione? “La soluzione? Föra di ball!” sghignazza, con un gesto osceno, il politico numero uno. “Vengano nella mia terra: noi li accoglieremo” azzarda timidamente il politico numero due. Chi ha ragione dei due, e in che contesto? In uno, ma a forza di bombe, si può “mandar via”, e vivere tutti quanti nella paura. Nell’altro, con il lavoro e la carità, si può vivere stretti all’inizio, ma in modo sempre più accettabile e più umano. Possono crescere, i bambini, bianchi e neri; oppure tirare a sorte (“tu sì tu no tu no tu forse”) il loro eventuale avvenire. Fra i due contesti diversi, l’Europa ha già dovuto scegliere altre volte. Scelga di nuovo, adesso; sperando che stavolta possa vincere la banalità del bene.
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