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Delitto Rostagno: in mezzo ai depistaggi carabinieri e magistrati?

di Rino Giacalone il . L'analisi, Sicilia

C’è un puzzle che si va componendo a proposito del delitto di Mauro Rostagno. Ed è un puzzle che non sembra avere mille sfondi e tanti colori con buona pace di chi per decenni ha sostenuto che la vita di Mauro era stata così movimentata e svariata che i moventi del delitto potevano essere diversi. Il puzzle è quello che ci presenta una Sicilia controllata dalla Piovra mafiosa, non c’è dubbio, si intravedono i tentacoli, si vedono le connessioni, ancora per la verità non tanto, ma si vedono investigatori che girano la faccia davanti ai morti ammazzati e guardano da tutt’altra parte mentre i killer fuggono.

C’è qualche investigatore che cerca di guardare dal verso giusto poi, ma non si accorge, o almeno per fortuna se ne accorgerà all’ultimo momento, che dietro di lui ci sono un paio di lupare puntate contro la sua testa. Torino e la classe operai, Trento e gli “amici” di sociologia, la frequentazione con Curcio, destinato a diventare capo dei terroristi delle Br, Lotta Continua, il Macondo, l’esperienza indiana tra gli arancioni, e poi quella del bianco candido della comunità Saman, infine Rtc e il giornalismo, la sintesi della ricca vita di Mauro Rostagno è questa (Maddalena e Chicca mi scuseranno se dimentico qualche passaggio), per anni ci siamo sentiti dire che ogni momento di questa vita poteva racchiudere un movente per la sua uccisione.

Facile dire tutto per non dire niente e il gioco è fatto, l’indagine può andare in archivio. E invece no, c’è il processo ed è contro due conclamati mafiosi trapanesi, Vincenzo Virga e Vito Mazzara. La storia dei due boss è ricca di episodi criminali, ne ricordo due, Virga fermato sulla sua auto la vigilia della strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985 con  tra le gambe una cartina della frazione di Pizzolungo che 24 ore dopo sarebbe stato di una terribile e tragica strage; Mazzara che l’antivigilia di Natale del 1995 andò ad uccidere un agente di custodia che si apprestava a festeggiare il Natale con la sua famiglia, ma la sua morte serviva per mettere un regalo sotto l’albero dei detenuti ristretti al carcere duro de l’Ucciardone.

Il puzzle

C’è un comune denominatore nella vita di Mauro Rostagno, da Torino a Trapani, ed è quello di essersi posto dalla parte di chi aveva bisogno, dei disagiati, delle vittime di quella politica dell’assistenzialismo e del povero ad ogni costo creato dalla politica clientelare. In Sicilia trovò gli esempi più fulgidi di tutto questo, e a Palermo andò a fare lo “scassapagliari” quando per esempio, portò i senza tetto dentro la Cattedrale togliendoli al controllo del rais di turno, politico o mafioso che fosse. A Trapani venne a denunciare l’abitudine dei cittadini a rivolgersi ai politici per qualsiasi cosa, anche chiedere e ottenere un certificato di residenza, ci aprì gli occhi sulla “munnizza” (spazzatura) per le strade, sulle speculazioni edilizie, sui cantieri controllati dalla mafia, sulla droga che circolava in gran quantità e non di quei pochi grammi spacciati dentro la Saman, sui processi che si svolgevano nelle aule di giustizia, sui delitti strani come quello di un giovanissimo pacecoto ammazzato all’alba mentre andava a lavorare in un panificio.

Quante cose raccontava da quegli schermi tv Rostagno, eppure mentre il dirigente della Mobile dell’epoca, Rino Germanà, quello che nel 1992 sfuggì al commando di killer composto dai boss più violenti, Messina Denaro, Graviano e Bagarella, indicava a chiare lettere la pista mafiosa, i magistrati del tempo della Procura di Trapani preferirono affidarsi ai carabinieri che non vedevano la mafia ma vedevano meglio come matrice del delitto i contrasti dentro la Saman o lo spaccio di quei pochi grammi di droga dentro la comunità. E le prove? Le risposte sono state incerte, titubanti, non ci sono intercettazioni (o almeno dovrebbero esserci ma non si trovano), risulta che le uniche intercettazioni vennero attivate un anno dopo il delitto, che le cassette delle trasmissioni in tv di Rostagno furono sequestrate (ma quante e quali considerato che oltre un migliaio sono rimaste ammassate dentro un magazzino) otto mesi dopo il delitto, addirittura mesi dopo venne presentato alla magistratura il verbale di sopralluogo sul luogo dell’omicidio, e non ci sono tracce delle foto di una parte della macchina.

C’è un particolare strano che ai più è sfuggito, ed è quello che un carabiniere importante, l’odierno generale in pensione Nazareno Montanti. All’epoca capo del nucleo operativo provinciale dei carabinieri, ha detto davanti la Corte di Assise che conosceva Mauro Rostagno. E come mai? Ci eravamo già visti a Milano ha risposto. E poi? Me lo sono ritrovato a Trapani.

Conosceva Rostagno ma non avrebbe dato tanto peso alla sua attività, una conoscenza davvero strana. In lui nessuna curiosità su cosa facesse Rostagno a Trapani, ha detto di non avere mai ascoltato le cose che Rostagno diceva in tv (“lavoravo fino a tardi e tornavo a casa la sera”), alle calcagna però gli aveva messo una delle “punte di diamante” del nucleo, così lo ha definito, il brigadiere, oggi luogotenente, Beniamino Cannas, che però si occupava di droga. Rostagno con lui parlava, usandolo come fonte per i suoi interventi in tv, lui gli chiedeva se a Saman andava tutto bene. Montanti pochi mesi dopo l’omicidio Rostagno andò via da Trapani, avendo il tempo di presentare un rapporto dove la pista mafiosa veniva sbeffeggiata. In Corte di Assise ha avuto il tempo di dire che per quanto a lui risultava Rostagno non aveva un grande seguito (circostanza che Germanà aveva messo in rilievo ponendola anche a base del movente del delitto). Montanti ai funerali di Rostagno non deve essere andato (forse quel giorno aveva gran lavoro da fare in caserma) sennò avrebbe visto la folla che aveva invaso le strade attraversate dal corteo funebre.

Ma c’è una cosa che assolutamente non può passare sotto silenzio e non vista. E cioè la circostanza che anni dopo, nel 1996 Montanti, Cannas, ed altri carabinieri, di quelli che si occuparono delle prime indagini sul delitto Rostagno vennero sentiti come persone informate dei fatti dall’allora capo della Procura di Trapani, Gianfranco Garofalo. Non sembra essere una cosa normale, abitudinaria, di routine nelle indagini. Quegli interrogatori sono finiti dentro un rapporto inviato alla Procura di Caltanissetta nel 1996 dal procuratore Garofalo. Il magistrato che riaprì le indagini sul delitto Rostagno, cominciate nel 1988 e finite presto a Trapani in archivio, prendendo di petto la cosiddetta pista interna con l’operazione «Codice Rosso» cercando inizialmente mandanti ed esecutori dell’omicidio dentro la comunità Saman, ad un certo punto avrebbe colto una serie di anomalie che lo portarono a denunciare i fatti alla procura nissena. Garofalo non restò fermo sulle iniziali sue convinzioni. Procedendo nelle indagini ebbe certezza che l’unica «pista interna» alla Saman di quel delitto poteva vedere coinvolto l’ex guru Francesco Cardella affianco agli indagati mafiosi (Cardella ha ottenuto l’archiviazione ma sospetti e ombre su di lui sono rimaste come si legge nella richiesta di rinvio a giudizio formulata dai pm della Dda di Palermo contro gli odierni imputati dinanzi alla Corte di Assise di Trapani, Virga e Mazzara).

Ma non solo: quando Garofalo trasmise alla Dda di Palermo il fascicolo delle indagini, dopo che alcuni pentiti cominciarono a svelare lo scenario mafioso, fece rapporto di ciò che aveva scoperto anche a Caltanissetta, facendo un elenco di comportamenti investigativi non corretti, anomali, intercettazioni e brogliacci spariti, cassette non più trovate, contestando con nomi e cognomi l’azione di investigatori dei carabinieri. Per Garofalo tra i carabinieri «c’era chi in quel momento proteggeva Cardella». E se il fascicolo fu trasmesso a Caltanissetta si
gnifica che riteneva esistere responsabilità anche in capo a magistrati, perchè solo in questo caso può esistere una competenza di quella Procura.

Nel 1988 ad imboccare la pista mafiosa per l’omicidio di Mauro Rostagno fu la Squadra Mobile diretta da Rino Germanà che però non fu posta nelle condizioni di continuare ad investigare dopo il rapporto presentato quasi alla fine di quell’anno. I carabinieri presero in mano l’indagine tenendola fino al 1996 (quando scattò con la Digos della Polizia l’operazione «Codice Rosso»).

Cosa è emerso dal processo, dalle testimonianze del generale Montanti e del luogotenente Cannas? Che non seguirono la pista di mafia perchè hanno detto non avevano elementi in tal senso, nonostante il delitto presentava analogie con altri delitti di mafia, prima e dopo, per esempio l’uso di un’auto rubata mesi prima e poi incendiata, l’uso di armi tipiche dell’«esercito» di Cosa nostra, il fatto che la zona del delitto era priva di illuminazione, un improvviso blackout e in quella zona l’operaio Enel incaricato era un tale Vincenzo Mastrantonio, ucciso poco dopo Rostagno per poi scoprire che era autista del capo mafia Vincenzo Virga. Su cosa indagavano allora i carabinieri? Montanti e Cannas hanno parlato il primo di affari illeciti (gestione finanziaria) dentro la Saman («Rostagno era una persona onesta e poteva non avere condiviso tale situazione»), l’altro di spaccio di droga. Ma a sentire le loro deposizioni nemmeno in tal senso avevano molti elementi in mano. Ciò non di meno le indagini dell’Arma non cambiarono mai direzione.

Tutto qui? No niente affatto il puzzle che si va componendo ha altri pezzi

Alcuni non arrivano proprio dalle voci del processo ma da fuori. C’è per esempio chi ricorda di una movimentata attività ai tempi dell’impegno politico di Rostagno dentro Lotta Continua. Ad un certo punto riunì il suo gruppo e disse che dovevano studiare gli atti della Commissione parlamentare antimafia del tempo (dovremmo essere all’incirca attorno agli anni ’70). “Erano volumi grossi, immensi, c’era la relazione di maggioranza e quella di minoranza” ricorda uno dei testimoni del tempo. Giorni dopo Rostagno chiese cosa avessero fatto. Sapeva che il lavora era tanto ogni giorno, e che la sera era difficile che quei giovani (perché allora erano dei giovani, giovanissimi) potevano mettersi a leggere e ragionare sulle cose che leggevano. Ed allora lui uscì un fogliettino, con uno schema, volete capire la mafia in Sicilia, ecco cominciate da qui, una serie di nomi, delle linee che si incrociavano, in capo a tutti il nome dell’avvocato palermitano Vito Guarrasi.

Nome “pesante” della Sicilia degli intrighi e delle commistioni, lo si incrocia in tutti i gialli, Mattei, De Mauro, nelle vicende politiche, come nel milazzismo (il governo regionale trasversale), nativo di Alcamo morì nel 1999 a Mondello nella sua villa dove si dice riceveva i burattinai dell’economia italiana come Cuccia, dopo che però incontrava Sindona. E secondo voi Rostagno nella sua attività giornalistica a Trapani, nel cuore di quella Sicilia dove la mafia in quegli anni era già cominciata a diventare Stato, impresa, aveva dimenticato quei suoi appunti? Penso proprio di no. Era uno che la mafia non la teneva in considerazione? A leggere gli editoriali non mi pare proprio. Tocca fili importanti, nomi che anni dopo sarebbero divenuti essenziali per gli accordi tra mafia, politica e impresa. Oggi la chiamano mafia sommersa ed ha un solo capo, il latitante Matteo Messina Denaro. E’ troppo poco tutto questo per far pensare al delitto di mafia? E’ vero Virga e Mazzara non possono essere gli unici imputati, ne mancano altri, ma possono essere solo mafiosi e colletti bianchi. Forse anche qualche agente dei servizi e ancora un paio di massoni.

Ultima annotazione

Questa è venuta fuori durante il processo. Il maresciallo (luogotenente pardon) Cannas solo leggendo la stampa si è ricordato di un verbale di interrogatorio che fece a Rostagno. Si parlava di mafia e massoneria, ad un certo punto ci sono due righe, Rostagno accenna ad un traffico di armi e droga. E torniamo così ad uno dei gialli dell’indagine. Garofalo lo percepì durante le indagini “Codice Rosso”, quando si imbattè in un personaggio, Sergio Di Cori, che gli parlò di un traffico di armi sulla pista di un aeroporto chiuso, quello di Kinisia, che Rostagno (così a lui disse che gli aveva riferito) era riuscito a filmare e poi andava in giro con questa cassetta, andò anche da Falcone (teste Alessandra Faconti) per fare vedere cosa aveva scoperto, perché voleva fare uno scoop, ma non per darlo a Rtc ma alla Rai.

Ora mentre Di Cori colloca la scoperta a ridosso del delitto (26 settembre 1988), il verbale di Rostagno con i carabinieri è del febbraio 1988, di molti mesi prima. «Lo sentimmo – ha spiegato Cannas – perché in un redazionale aveva ridicolizzato lo scandalo della loggia coperta Iside 2 (una loggia segreta scoperta in quei giorni a Trapani e dove erano iscritti mafiosi, politici, burocrati, prefettizi, questurini, dirigenti di banca, dirigenti di aeroporto)». Vero, l’editoriale di Rostagno tendeva a sgonfiare il caso, ma stranamente però risulta una sua attività, si mise a cercare gli uomini della loggia, voleva sapere di più e qualcosa riuscì a sapere se poche settimane dopo uscì con un nuovo pezzo in tv dove parlava del gran maestro della P2 Licio Gelli venuto a trovare più i mafiosi trapanesi che i fratelli massoni, ricevuto a casa del capo mafia di Mazara Mariano Agate.

Mafia, massoneria, armi, è il classico intrigo che di solito copre gli affari più sporchi del nostro Paese. Sporcizia che negli anni a venire, decenni dopo il delitto, è venuta fuori da altre indagini, quelle che hanno portato ad arresti e condanne a Trapani. Magari qualcuno se ne è dimenticato, ma le sentenze sono a portata di mano. Rostagno aveva messo mano sulla mafia antica che stava diventando moderna. L’ordine di uccidere partì da casa dei Francesco Messina Denaro, il patriarca della mafia belicina, oggi il suo erede e quel tale Matteo Messina Denaro che pontifica di rivoluzioni contro i torquemada da strapazzo che fanno le indagini e i processi, parla di toghe rosse e di professionisti dell’antimafia, di persecuzioni e di vendette varie. Sentirete parlare ancora di me ha lasciato scritto. Per adesso di lui ne cominciamo a sentire parlare nel processo per il delitto Rostagno. Solo che c’è chi da queste orecchie pare che continui a non volerci sentire e preferisce le favole ai fatti. Mauro Rostagno non era a cento passi dalla mafia ma a meno di cinque passi, e forse quella comunicazione giudiziaria per il delitto Calabresi serviva a qualcuno per portarlo presto lontano da Trapani e dai suoi misteri.

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