Siamo tutti ostaggi
Un’etimologia germanica e longobarda dice che la parola tregua indica un patto che dà origine a una sospensione dei combattimenti.
Che la tregua riguardi sempre e soltanto i due belligeranti non è affatto vero. Credo che non v’è persona al mondo che non veda l’ora di tirare il più classico dei sospiri di sollievo insieme alle centinaia di migliaia di persone che nella Striscia di Gaza hanno vissuto 476 giorni sotto la minaccia quotidiana di essere bombardati, di morire per una malattia non curabile o per fame o per inedia. Per non parlare di prigionieri e ostaggi da una parte e dall’altra.
Sì, a guardar bene, siamo stati tutte e tutti in guerra perché tutte e tutti minacciati da una cultura di ritorno dell’odio e della violenza con tanto di ceralacca della legittimazione. Siamo tutti ostaggi di chi dice che questo era il prezzo da pagare per rendere il mondo più sicuro e più giusto.
E oggi, noi ostaggi, in attesa d’essere riconsegnati alla vita, vittime e carnefici, se un barlume di onestà ancora ci resta, siamo costretti ad ammettere che il mondo è oggi più insicuro di ieri e che in questi 476 giorni un futuro incerto e violento ha affondato di più le sue radici.
Tutto questo serve a comprendere l’ubriacatura della tregua ma anche a promettersi gli uni gli altri di lavorare sodo per tentare di sradicare le radici del male da quella Terra santa.
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