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La confisca dei beni alle mafie: una occasione di sviluppo

Di Lorenzo Frigerio il . Progetti e iniziative

Pasta e vino, e con essi altri frutti della terra prodotti di utilizzo quotidiano e anche una colata di calcestruzzo sono oggi i veri simboli della lotta alle mafie, i segni tangibili che la battaglia contro le cosche può essere vinta, creando occasione di sviluppo e lavoro nel pieno rispetto della legalità. La pasta e il vino sono quelli realizzati dalle cooperative di giovani che lavorano i terreni confiscati alle mafie e che oggi sono commercializzati in tutto il Paese con il marchio di qualità e legalità “Libera Terra”; il cosiddetto “calcestruzzo della legalità”, invece, è quello prodotto a Trapani dalla nuova cooperativa “Calcestruzzi Ericina Libera”, inaugurata agli inizi del febbraio 2009.

Libera Terra, qualità nella legalità
“Libera Terra” è il marchio attribuito ad una ricca serie di prodotti (oltre una ventina oggi e tutti di alta qualità organolettica e ricavati con i metodi dell’agricoltura biologica) frutto delle fatica quotidiana dei giovani agricoltori delle cooperative sociali che aderiscono a “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, il cartello di associazioni antimafie che dal 1995, sotto la guida di Don Luigi Ciotti, già fondatore del Gruppo Abele, coniuga percorsi di impegno civile e sociale, con progetti di formazione nelle scuole per studenti e docenti, iniziative di informazione e sensibilizzazione rivolte alla cittadinanza.

Nel corso degli anni i prodotti con il marchio “Libera Terra” sono cresciuti di importanza e hanno acquisito mercato e notorietà in Italia e nel mondo. I vini Centopassi, prodotti dalla Cooperativa Placido Rizzotto e dalla Cooperativa Pio La Torre, che hanno avuto in affidamento dal Consorzio Sviluppo e Legalità dell’Alto Belice Corleonese alcuni importanti vigneti, si stanno affermando sempre più e, nelle recenti edizioni delle più prestigiose guide enologiche italiane, hanno riportato voti altamente lusinghieri. Basti pensare che alla prossima edizione di Vinitaly, in programma a Verona in aprile, saranno presentati tre nuovi vini biologici di alta qualità, mandati in produzione in singoli vigneti.

Singolare anche la modalità di costituzione delle cooperative, che viene attuata con la selezione dei cooperanti mediante bando pubblico: oltre alle mansioni lavorative, è richiesta una piena adesione al progetto di lavoro su terreni confiscati alle mafie. Si vuole che quanti saranno scelti siano assolutamente consapevoli della delicatezza del loro ruolo, anche in termini di funzione educativa e sociale. Nasce così la “Placido Rizzotto” in Sicilia nel 2001, a cui si aggiungono successivamente le cooperative “Valle del Marro” in Calabria, “Pio La Torre” in Sicilia e “Terre di Puglia” nel Salento. In occasione della Giornata della memoria e dell’impegno, promossa da Libera a Napoli nel 2009 a cui hanno partecipato oltre 150.000 persone provenienti da tutta Italia e anche da fuori – un numero imprevedibile, ripetutosi però anche nel 2010 a Milano – ha preso avvio formalmente il processo di costituzione di una nuova cooperativa chiamata a gestire una fattoria sociale con annesso caseificio, su terreni che sono stati confiscati al clan dei Casalesi; il traguardo ambizioso ma perseguibile è la prossima produzione di mozzarelle di bufala, altro prodotto biologico che si possa aggiungere ai tanti fin qui realizzati, in meno di un decennio. La nuova cooperativa si chiama “Le Terre di Don Peppe Diana”, in ricordo del coraggioso sacerdote ucciso a Casal di Principe il 19 marzo del 1994.

Il calcestruzzo della legalità

Alle diverse cooperative che lavorano le terre restituite un tempo di proprietà mafiosa e ora confiscate dallo Stato, recentemente si è aggiunta una nuova realtà, parzialmente diversa in ragione dell’oggetto sociale: la cooperativa Calcestruzzi Ericina Libera costituita da sei soci, un tempo dipendenti della stessa azienda confiscata a Vincenzo Virga, boss trapanese.

L’azienda che produce calcestruzzo, dal giugno 2000, quando viene confiscata, è gestita in amministrazione giudiziaria e ci vogliono quasi dieci anni per trasferire i beni aziendali della Calcestruzzi Ericina alla cooperativa che, nel frattempo, viene costituita dai lavoratori: quasi dieci anni perché possa nascere finalmente la Calcestruzzi Ericina Libera, grazie all’impegno e alla collaborazione di diversi soggetti, dalla Prefettura di Trapani, alle forze dell’ordine e alla magistratura, dall’Agenzia del Demanio a realtà produttive come Unipol e Legacoop, con una regia complessiva esercitata da Libera.  

Questi anni servono anche per rinnovare le strutture per la produzione di calcestruzzo, ma anche per realizzare un impianto all’avanguardia per il riciclaggio di inerti: anziché finire al macero, o peggio essere abbandonati con gravi danni per l’ambiente circostanti, materiali da discarica possono essere trasformati per essere impiegati nuovamente in edilizia. Una nuova sfida imprenditoriale che però consente alla nuova cooperativa di misurarsi in modo competitivo all’interno del mercato delle costruzioni potendo contare anche su alcune risorse tecnologiche di non poco conto.

Un mercato, quello dell’edilizia, che ancora oggi risente in larga parte dell’influente presenza negativa delle cosche, non solo al sud, come testimoniato anche da una recente operazione dell’Arma dei carabinieri che ha portato alla luce in tentativi di infiltrazione, in parte andati purtroppo a buon fine, negli appalti dell’Alta Velocità alle porte di Milano e in quelli per i lavori di ammodernamento della A4 nella tratta tra Bergamo e Milano.

In questi anni la rete di Libera ha consentito alle cooperative di operare in serenità e guardando al futuro, nonostante le intimidazioni, gli attentati e le preoccupazioni che quotidianamente i cooperanti devono affrontare, rischiando molto anche in termini economici. Non dimentichiamo, infatti, che i beni restano di proprietà dello Stato, secondo la formula del comodato, cioè del prestito d’uso gratuito.

L’art. 416 bis e le misure patrimoniali

Se queste sono le eccellenze, se questi i segni di un cambiamento possibile, occorre fare un passo indietro per capire come si è arrivati a questi straordinari risultati, pur tra mille difficoltà. La strategia di attacco ai patrimoni mafiosi è frutto di una lunga elaborazione da parte di politici, magistrati, esponenti della società civile, che prende le mosse quasi quarant’anni fa. È sul finire degli anni Sessanta che due grandi processi alle cosche siciliane, celebrati a Bari e Catanzaro per motivi di ordine pubblico, terminano con una scandalosa serie di assoluzioni per insufficienza di prove. Ciò accade per la mancanza di una previsione legislativa del reato di associazione mafiosa: se è complicato ma possibile provare un omicidio o un traffico di sostanze stupefacenti, diventa praticamente impossibile provare l’esistenza di un’associazione mafiosa vera e propria.

L’esito negativo di quei processi rinfocola così la polemica contro quelle che vengono tacciati di essere teoremi, ardite ricostruzioni della magistratura da parte di chi non vede l’ora di dire che la mafia non esiste, che il mafioso è solo un uomo che sa farsi giustizia da sé, che la cultura mafiosa è propria di alcune regioni e destinata a scomparire con l’arrivo del progresso e dello sviluppo nel Mezzogiorno d’Italia. Ingenuità, opportunismi, collusioni, cointeressenze: tutti atteggiamenti che confluiscono nel creare alibi sociologici e culturali, fino a metterne in dubbio la stessa esistenza, ad una vera realtà criminale, strutturata su base territoriale, con rigide regole d’affiliazione e di appartenenza e i cui obiettivi sono l’accumulazione di profitti illeciti e la ricerca costante e cont
inua con il potere legale, per inquinarlo e trarne ogni tipo possibile di vantaggio.

Ci vogliono quasi vent’anni prima che lo Stato si possa dotare di una serie di norme che colpiscano l’associazione mafiosa in quanto tale. E ci vogliono anche un gran numero di omicidi eccellenti prima che le intuizioni di Pio La Torre, deputato nazionale e segretario del Partito Comunista in Sicilia, prendano finalmente valore di legge.

Grazie alla sintesi delle sue conoscenze del fenomeno mafioso – una conoscenza maturata nel corso di anni di lotta sindacale nei latifondi per dare dignità e lavoro ai contadini, sottomessi dalla violenza mafiosa – e degli approfondimenti investigativi di alcuni magistrati, come Cesare Terranova e Gaetano Costa, prende corpo una serie di norme, tra cui l’articolo 416 bis che introduce nel Codice Penale il reato di associazione di tipo mafioso e le misure di prevenzione patrimoniale. Accanto alla sorveglianza speciale e all’obbligo di soggiorno, si prevede il sequestro e l’eventuale confisca di tutti i beni disposti “a carico delle persone nei cui confronti possa essere proposta una misura di prevenzione perché indiziate appartenere ad associazioni di tipo mafioso”. Nel caso in cui non si riesca a provare la lecita provenienza di questi beni, è prevista la confisca in via definitiva degli stessi.

È questo il cuore del problema, secondo La Torre: per colpire le cosche mafiose occorre colpirne la fase di accumulazione e reinvestimento dei capitali. La Torre, Terranova, Costa, come molti altri in quei terribili anni, pagano con la vita il loro impegno nel contrasto alle mafie. Quella che passa alla storia come la Legge “Rognoni – La Torre” – la legge, infatti, prende il nome dal Ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio Rognoni, e dal politico che più di tutti si era speso nel dare una nuova lettura del fenomeno mafioso, La Torre appunto – viene finalmente approvata soltanto all’indomani dell’ennesimo delitto eccellente annunciato, quello del Prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro e all’autista Domenico Russo il 3 settembre 1982.

Dal maxiprocesso alle stragi del 1992

Grazie alla previsione del terzo comma dell’articolo 416 bis C.P1., il pool dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, costituito da Rocco Chinnici e poi, dopo la sua morte violenta (un’autobomba piazzata sotto casa il 29 luglio 1983), guidato da Antonino Caponnetto, riesce a istruire il primo maxiprocesso alle cosche palermitane, portando alla sbarra centinaia e centinaia di uomini di Cosa Nostra. Lo Stato sembra riscuotersi da un torpore durato decenni e supporta in pieno e con ogni mezzo l’azione della magistratura che si avvale per la prima volta del contributo determinato dei collaboratori di giustizia, più conosciuti dall’opinione pubblica come “pentiti”: mafiosi cioè che decidono di fare un accordo con lo Stato per avere salva la vita e, in cambio, rilasciare importanti dichiarazioni sull’organizzazione mafiosa.

Il maxiprocesso è uno spartiacque fondamentale nella lotta alle mafie: Cosa Nostra è visibile dopo decenni di polemiche e incertezze, i boss vengono processati, le collusioni e le infiltrazioni vengono messe allo scoperto. Dopo le condanne, che diventeranno definitive il 31 gennaio 1992, scatenando una nuova stagione di sangue, non è più possibile dire che la mafia non esiste.
La magistratura si misura anche con gli strumenti di prevenzione patrimoniale, ma nonostante i primi successi, gli sforzi sembrano immani, forse e soprattutto perché manca ancora qualcosa.

Quel qualcosa nasce grazie all’impegno di un network nazionale di associazioni che nasce dopo le terribili stragi del 1992, in cui persero la vita i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino con otto agenti di scorta: quell’estate di fuoco, seguita da un biennio carico di rischi per la tenuta democratica del nostro Paese, tra stragi e trattative, segna un punto di non ritorno nella lotta alle mafie. Appare ormai chiaro con tutta evidenza che non basta l’attività repressiva, pur importante, di forze dell’ordine e magistratura per battere le mafie. Serve qualcosa di diverso, qualcosa che tolga consenso sociale alle cosche e crei le condizioni per prevenire il fenomeno. Nasce così “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”, chiamando a raccolta associazioni, scuole, cittadini e le più varie tra loro espressioni e realtà della vita quotidiana, per creare forme di impegno stabile nella lotta alle mafie.

Il primo impegno del costituito network antimafia è la raccolta di oltre un milione di firme di cittadini per la presentazione di un testo di legge che rilanci con forza le centralità del versante patrimoniale nel contrasto alle mafie. “Vogliamo che lo Stato sequestri e confischi tutti i beni di provenienza illecita, da quelli dei mafiosi a quelli dei corrotti. Vogliamo che i beni confiscati siano rapidamente conferiti, attraverso lo Stato e i Comuni, alla collettività per creare lavoro, scuole, servizi, sicurezza e lotta al disagio”: così si apre l’appello sotto il quale appongono la loro firma oltre un milione di italiani. Quella proposta di iniziativa popolare diventa la Legge 7 marzo 1996, n. 109 approvata a camere ormai sciolte, in vista della imminente scadenza elettorale: una legge che oggi consente il riutilizzo sociale dei beni confiscati ai mafiosi, in alternativa all’utilizzo da parte dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile.   

Grazie all’utilizzo sociale, si dimostra che quanto le mafie hanno tolto alla collettività con violenza, inganno, illecito torna alla stessa società con l’impiego dei medesimi per uno scopo collettivo, di crescita civile. Le diverse forme di riutilizzo sociale sono anche un mezzo per sottrarre consenso agli uomini delle mafie nei territori di appartenenze, per far vedere come la giustizia prevale sempre e comunque sull’illegalità.

I numeri della “Mafia S.p.A.”

Dall’entrata in vigore della legge ad oggi, molti progetti di riutilizzo dei beni confiscati sono andati a buon esito: case, terreni e aziende hanno conosciuto una seconda vita, potendo diventare nel luogo di confisca un segno della vittoria dello Stato. Eppure non mancano coloro che restano scettici sulla capacità di sottrarre veramente i beni alle mafie. Infatti, secondo una stima fatta dalla Direzione Investigativa Antimafia e ripresa dal settimanale economico “Il Mondo”, tra il 1992 e il 2006 sarebbero stati sequestrati ai boss beni per un valore di oltre 4 miliardi di euro, mentre il valore delle confische ammonterebbe solo a 744 milioni. Alcuni dicono che bisogna moltiplicare per dieci queste cifre, per avvicinarsi alla realtà, tenuto conto della svalutazione e dell’entrata in vigore dell’euro. In realtà, si tratta pur sempre di stime sulle quali non fare troppo affidamento, in quanto diventa difficile determinare con esattezza l’esatto valore di terreni, abitazioni o aziende.

Un valore quello di questi beni che viene comunque diminuito nel passaggio attraverso le varie fasi necessarie per arrivare al riutilizzo a fini sociali: dal momento del sequestro alla confisca definitiva; dalla confisca al provvedimento di destinazione del bene; infine, dalla consegna all’uso effettivo, sociale o istituzionale non importa. La perdita di valore può dipendere dagli atti di vandalismo effettuati dagli stessi proprietari di un tempo che non sopportano che altri possano godere di quelle che continuano a considerare proprie ricchezze; ma il nemico più pericoloso resta l’usura dovuta al mancato utilizzo. Non a caso le maggiori difficoltà si incontrano quando si tratta di operare un minimo di manutenzione per ripristinare l’utilizzo del bene o riavviare le coltivazioni.

Facendo una valutazione complessiva di quanto è stato confiscato, si consideri come, in da
ta 1 novembre 2010, gli immobili e le aziende sottratte alle mafie erano 11.152, la maggior parte concentrata nelle isole (con la Sicilia a quota 4.971) e nel sud del paese (Campania 1.679 e Calabria ferma a 1.544). Da registrare il dato della Lombardia (957) che contende la quarta piazza alla Puglia (906), dimostrando quale via prendano i profitti mafiosi nella fase di riciclaggio dei capitali illeciti. Questa ultima considerazione è confermata dall’analisi della classifica delle regioni per numero di aziende confiscate. La Lombardia si trova al terzo posto con 195, dietro soltanto a Sicilia (516) e Campania (268).

Ora confrontiamo questi numeri con la realtà economica delle mafie nel loro insieme. Una presenza criminale che, nel corso dei decenni, si è fatta impresa, multinazionale del crimine. Stando all’ultimo rapporto SOS Impresa, pubblicato nel gennaio del 2010, il fatturato complessivo delle mafie nostrane sfiora i 135 miliardi di euro all’anno. Altrettanto impressionante è il dato dell’utile della holding mafiosa: si parla di quasi 80 miliardi di euro all’anno.
In questi mesi si parla, sempre più spesso a sproposito, di emergenza sicurezza, puntando i riflettori della pubblica opinione di volta in volta sugli sbarchi clandestini, le aggressioni brutali ai danni di clochard e, in ultimo, gli stupri nelle metropoli,. Fermo restando la drammaticità delle situazioni appena elencate, nessuno che abbia invece detto chiaramente che la vera emergenza, senza ombra di dubbio, è costituita dalla presenza delle mafie nel nostro paese e dalla loro criminale capacità di infiltrare il tessuto sociale ed economico della nostra vita quotidiana.

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