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I tunisini a Crotone si raccontano:
“Qui siamo bloccati”

Di Angela De Lorenzo* il . Calabria, Internazionale

Ormai riempiono le strade della città quasi in ogni ora e la loro sembra un’esistenza evidentemente contrassegnata dall’attesa: davanti ai bar, sulle panchine, lungo le strade... Girovagano senza meta. E, infatti, a Crotone i numerosi tunisini giunti nelle ultime settimane, dopo la rivoluzione popolare che ha investito il loro Paese, non fanno altro che aspettare, perché il vero intento è raggiungere il prima possibile il resto dell’Europa. Per loro la città di Pitagora non rappresenta altro che una tappa del viaggio verso la salvezza. Le mete più ambite sono: Germania, Belgio e Francia.

C’è un posto in città che per tutti gli immigrati rappresenta un punto di riferimento, è un bar del centro dal quale è possibile telefonare all’estero e inviare o ricevere denaro per e da altri paesi, ma anche il posto in cui potere incontrare facilmente persone nelle stesse condizioni, stranieri spaesati e altri più pronti ad affrontare la quotidianità perché arrivati da più tempo e disposti ad aiutare e ad orientare gli altri (nel bene e nel male). È soprattutto qui che negli ultimi giorni si stanno radunando decine di tunisini quando escono dal Centro per stranieri di Sant’Anna che li sta ospitando. Ed è qui che li abbiamo incontrati.

Tra di loro ci sono soprattutto giovanissimi, anche minorenni, provenienti soprattutto dalle coste. Infatti nel loro Paese svolgevano quasi sempre attività di pescatori o comunque legate alla pesca. I più adulti come i più giovani, però, hanno qualcosa che li accomuna nello sguardo: diffidenza e paura. Qui non si sentono ancora al sicuro e infatti qualcuno, in un primo momento, non vuole ammettere nemmeno di essere tunisino. In pochi conoscono l’italiano e sono evidentemente spaesati. Hanno tante difficoltà a comunicare con chiunque, anche per chiedere informazioni più banali. Rispetto al resto della città, quindi, anche se circolano per le strade, la loro è una condizione di isolamento.

Perché riescano a fidarsi e accettino di parlare della situazione in cui si trovano sono necessarie le rassicurazioni di un tunisino che parla bene l’italiano e che vive a Crotone da 13 anni: Luigi, che lavora su un peschereccio e che qui si è sposato con una romena, dalla quale ha avuto una bambina. Senza di lui avrebbero fatto finta di non capire ogni domanda in francese e avrebbero continuato a parlare in arabo tra di loro per sentirsi più sicuri, protetti dal pericolo di potere essere capiti. Anche qui, infatti, continuano a non sentirsi altro che uomini in fuga, anche dall’Italia intendono scappare il più velocemente possibile. Qualcuno ci aveva anche provato immediatamente dopo al suo arrivo, salendo su un treno verso il Settentrione, ma sono stati quasi sempre fermati dalla Polfer. «Solo in pochi – ammettono – sono riusciti ad andare via». C’è stato chi da Bologna è stato rispedito indietro a Crotone, altri sono stati fermati direttamente in stazione e si sono visti sottrarre il biglietto che avevano appena acquistato.

Tante, per questo, sono state le manifestazioni di amarezza e disperazione: «Eravamo prigionieri della dittatura in Tunisia, ora lo siamo anche qui. Noi vogliamo andarcene. Chiediamo asilo politico perché ci trattano da carcerati? Siamo solo disperati, perché ci devono tenere qui per forza? Questo non è giusto». «Non abbiamo tanti soldi con noi – ha aggiunto un altro – abbiamo bisogno al più presto di lavorare, ci hanno preso pure il biglietto del treno che avevamo comprato con gli ultimi spiccioli. Se non possiamo partire ora, almeno dovevano lasciarcelo per utilizzarlo in un secondo momento, oppure avrebbero dovuto rimborsarci. La verità è che stiamo subendo ancora ingiustizie come se non ci bastassero quelle già sopportate in Tunisia per 23 anni, durante il regime di Ben Alì».

L’ira contro l’ex dittatore accomuna tutti: «Ha rovinato il nostro Paese». I profughi tunisini lamentano il ritardo delle prassi burocratiche per ottenere i documenti anche perchè senza, oltre a non potere lasciare Crotone, sono impossibilitati a ritirare il denaro che in questo momento di bisogno potrebbero inviare le famiglie lasciate in Tunisia. «Non abbiamo documenti al momento – lamentano – solo il tesserino che ci permette di entrare ed uscire dal Campo, ma che non è valido né per partire, né per ricevere denaro. Siamo senza niente, bloccati in questa città, ma noi non siamo venuti per stare nel Campo! Tutti i soldi che avevamo dietro li abbiamo spesi per pagare il viaggio in mare verso l’Italia». Il viaggio, già, è qualcosa a cui quando questi tunisini pensano non riescono a fare a meno di portarsi le mani alla fronte, sospirare o coprirsi gli occhi e commentare: «No buono, no buono».

Un giovane 23enne ha raccontato che è arrivato a bordo di una piccola barca, su cui erano in 115, tutti ammassati uno sull’altro. Ma non è tutto, perché mentre lasciavano le coste tunisine le motovedette del loro Paese hanno tentato in tutti i modi di fermarli, schiantandosi contro quella piccola imbarcazione e sparando. In 50 sono morti e i loro corpi sono stati gettati in mare. Eppure un viaggio simile, in cui la probabilità di arrivare vivi non è alta quanto quella di perdere dei compagni durante il viaggio, non costa meno di 2mila euro. Questa, infatti, è la cifra minima che ogni tunisino ha pagato e che altri stanno continuando a pagare per raggiungere l’Italia.

Perché subire tutto questo? Impoverirsi per scappare? «Perché – rispondono i tunisini – anche se non c’è più quel ladro di Ben Alì al potere, quel dittatore che ha portato la Tunisia alla rovina e che ora fa finta di essere morto, la situazione continua ad essere drammatica: ora c’è l’anarchia, il popolo non ha capito che deve calmarsi e sta succedendo che il pesce grande mangia il pesce piccolo. Il più forte ruba, compie violenze, entra nelle case e nei supermercati prendendo quello che gli serve. Da lì conviene andare via perché basta poco per morire». Questa però per la maggior parte di quei giovani tunisini rappresenta solo una soluzione momentanea: «Quando le cose si calmeranno torneremo – ha detto un 23enne che in una piccola cittadina lungo la costa della Tunisia fino a qualche settimane lavorava in un cantiere navale, occupandosi di riparare le barche dei pescatori – ora possiamo pensare al nostro futuro in Tunisia perché non c’è più la dittatura. Si tratta di aspettare un pò perché il popolo organizzi il potere e la democrazia. Nel frattempo vogliamo lavorare in Europa, così non rischiamo la vita e guadagnamo il denaro necessario alle nostre famiglie per rialzarsi». «Certo che vogliamo tornare nel nostro Paese – ha aggiunto un altro – siamo preoccupati per le nostre famiglie ed è dura seguire quello che accade dalla televisione. Mi sembra normale, anche noi abbiamo un cuore e dei sentimenti, non siamo scappati dimenticando tutto».

*da Il Crotonese

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